RSS

Archivi categoria: Linguistica

Tutti informatici, noi del 1974

da “Star Trek: 35th Anniversary” (1991): avventura testuale tutta in inglese

«Tutti poeti, noi del ’56» cantava Miguel Bosè in Bravi ragazzi (1982): non so se sia vero, ma di certo noi degli anni Settanta eravamo tutti informatici. E masticavamo tutti l’inglese.

Qualche giorno fa il blog “Doppiaggi italioti” di Evit ha ospitato un imperdibile speciale sulla storia del doppiaggio italiano dei videogiochi il cui autore – il giornalista Damiano Gerli – appartiene a quella “fazione” che mi è capitato di trovare già altre volte in Rete: quella per cui prima dell’avvento di internet gli italiani erano tutti digiuni di lingua inglese.

Read the rest of this entry »

 
28 commenti

Pubblicato da su giugno 16, 2021 in Linguistica

 

La lingua informatica di Copycat (1995)

Mi è capitato di rivedere su Prime Video il film “Copycat – Omicidi in serie” (Copycat, 1995) di Jon Amiel, che all’epoca della sua uscita fu molto pubblicizzato e ben distribuito. Inoltre i film con Sigourney Weaver erano così rari che quando uscivano li si seguiva con attenzione.

Rivederlo dopo venticinque anni è stato piacevole, era come me lo ricordavo ma è stato interessante quanto sia cambiata l’informatica in questi tempi e soprattutto come sia profondamente mutata la percezione del pubblico. Nel 1994 si era in piena esplosione informatica eppure nell’immaginario collettivo era ancora “roba da nerd”, quando nerd era un dispregiativo che indicava un ragazzo (mai una ragazza) imbranato, brufoloso e che non usciva mai di casa, intento a studiare il computer per le sue risibili passioni. Nel film c’è un delizioso riflesso di tutto questo

La dottoressa Helen Hudson (Sigourney Weaver) è una delle più note esperte d’America di assassini seriali, ma da quando ha subìto un’aggressione da parte di uno dei suoi “soggetti” vive segregata in casa: l’unica finestra sul mondo è il suo computer collegato in Rete. Siamo agli albori di Internet, è ancora una realtà misteriosa e sospetta..

Un brutto giorno riceve per mail il messaggio del pericoloso assassino a cui la polizia sta dando la caccia, e il messaggi contiene un file .AVI, in un’epoca in cui era ancora un formato troppo pesante da gestire. Sconvolta dalla visione del messaggio, la dottoressa chiama i due agenti che si stanno occupando del caso: MJ Monahan (Holly Hunter) e Ruben Goetz (Dermot Mulroney). Dunque abbiamo la dottoressa istruita, l’agente donna pratica e abituata al comando e l’agente uomo smanettone.

Read the rest of this entry »

 
19 commenti

Pubblicato da su Maggio 3, 2021 in Linguistica

 

La lingua di Zagor (1972)

Nel 2021 si festeggiano sia i 90 anni del film Dracula (1931) con Bela Lugosi, sia i 35 anni della sua prima apparizione in lingua italiana (il 20 aprile sul mio blog Il Zinefilo), e per l’occasione ho iniziato un viaggio tra i fumetti di “Zagor“, storico eroe della Bonelli che fra i suoi nemici ricorrenti può annoverare Bela Rakosi, un chiaro omaggio tanto al citato film quanto all’attore.

Oggi sul mio blog di fumetti racconto il mio primo positivo incontro con il vampiro zagoriano, ma qui voglio approfittarne per raccontare un curioso fenomeno: quello delle didascalie bonelliane.

La storia “Zagor contro il vampiro” è uscita nelle edicole italiane nell’agosto 1972 e dalle note esplicative dello sceneggiatore, Sergio Bonelli che si nasconde dietro il suo consueto pseudonimo Guido Nolitta, possiamo avere un’idea della cultura popolare linguistica dell’epoca.

Ospiti a cena del barone Bela Rakosi, il paffutello Cico di mostra di avere una solida conoscenza della cultura ungherese.

Un messicano estimatore della cultura ungherese

Bonelli, come ogni bravo scrittore, non può dare per scontato che tutti i lettori abbiano un’infarinatura di nomi tipici ungheresi quindi per sicurezza riporta in nota la spiegazione dei termini citati dal personaggio. Se gli amanti della musica classica già all’epoca sicuramente potevano avere confidenza con il termine “Csárdás“, grazie al celeberrimo brano del 1904 di Vittorio Monti – italiano, quindi, ma ispirato alla tradizione ungherese – non è detto che il lettore comune avesse conoscenze culinarie tali da sapere cosa fosse il “Gulasch” (gulyás), termine ampiamente citato in ambito alimentare, anche nelle varianti goulasch, gulash e via dicendo.

«Un decennio dopo Kruscev, il gulash socialism, il socialismo del burro coi cannoni, è diventato il punto fermo della loro strategia»
da “La Stampa”, 26 febbraio 1974

Quindi c’è anche un’accezione politica! Tra parentesi, assolutamente imperdibile il racconto di Mel Gibson sull’impossibilità dello scozzese Sean Connery di pronunciare la parola gulasch.

C’era proprio bisogno di una nota per la paprica?

Se i due casi precedenti li ho trovati giustificati, mi sono stupito di trovare in nota la spiegazione per la “paprica“, scritta con la “k”: nella mia ignoranza culinaria ero convinto fosse una spezia presente nella cucina italiana da sempre, ma a quanto pare è una “scoperta recente”.

Sfogliando archivi di riviste italiane, a parte uno spettacolo comico chiamato “Paprika” che pare abbia avuto molto successo negli anni Trenta, in realtà della paprica usata in cucina ho trovato rarissime menzioni prima del 1970, in cui letteralmente esplode e la si trova citata ovunque, a volte scritta con la “c” a volte con la “k”. Addirittura “la Stampa” del 24 ottobre 1970 la preleva dall’ambito culinario per usarla in quello cromatico:

«colori più attuali: ruggine, paprika, terra di Siena»

Visto dunque che la storia di Zagor esce proprio nel momento in cui il termine stava entrando in pianta stabile nella nostra cultura, probabilmente Bonelli non se l’è sentita di darlo per scontato e ha voluto assicurarsi che anche i lettori digiuni di cucina capissero il riferimento.

«Spolverare di paprica e mettere in forno con calore piuttosto forte sopra, finché il formaggio fonda.»
dal “Radiocorriere TV” del maggio 1970

«Marchini ha parlato di indecenza […], le partite non si perdono così e quelli della Roma sono stati presi per i fondelli. Finale alla paprica di Marchini: “Se il calcio è ridotto così, è meglio farla finita”.»
da “l’Unità”, 30 novembre 1970

Da quest’ultima citazione possiamo notare come il termine fosse già uscito dalla cucina per diventare simbolo di “pepato”.

E per “sandwiches”? Niente nota?

Niente nota esplicativa per “sandwiches“, sillabato in maniera sospetta: quindi, secondo l’autore, i lettori italiani del 1972 non avevano familiarità con il gulasch e con la paprica invece sapevano perfettamente cosa fossero i sandwiches, a dimostrazione che la lingua inglese è sempre stata più che nota nel nostro Paese. Va comunque lodato Bonelli per aver spiegato nella vignetta successiva che si tratta di “panino imbottito”.

da “La Stampa” del 7 dicembre 1970

Il termine era in effetti così usato da essere ormai da tempo uscito dall’ambito alimentare per diventare simbolo di “multi-strato”, e si sa che gli italiani adorano usare termini inglesi al posto di pre-esistenti parole italiane.

«La rigidità dei diaframmi degli altoparlanti, vantaggi della costruzione a sandwich»
articolo da “Alta fedeltà”, luglio 1959

«Si formano così, ad esempio, tre strati a sandwich P-N-P allo scopo di “formare” un transistore.»
da “Sistema pratico”, febbraio 1968

«Sulla Quinta ho visto prima di partire due gruppi di ragazzi-sandwich. I loro cartelli dicevano: “Basta con l’omicidio ordinato per posta”.»
da “l’Unità”, 9 giugno 1968

Questi tre ambiti non-alimentari indicano che il termine in quel 1972 era così sdoganato da non aver bisogno di nota.

Chiudo con una domanda: perché, come si vede nell’esempio del 1959, l’inglese transistor è diventato l’italiano “transistore” e sandwich invece non è stato inglobato nella nostra lingua? Se beefsteak è diventato bistecca, se stockfish è diventato stoccafisso… perché sandwich non è diventato senduìccio? Si accettano altre varianti…

L.

– Ultimi post simili:

 
12 commenti

Pubblicato da su aprile 12, 2021 in Linguistica

 

Itanglese in Giappone

Mi piace seguire i video su YouTube di persone straniere che parlano in italiano, o perché si sono trasferite in Italia o perché amano la nostra lingua e cultura: paradossalmente serve uno straniero per sentire parlare un italiano quasi completamente privo di termini inglesi.

Eriko, del canale Erikottero, è una giapponese simpaticissima che vive da anni in Italia, arrivata qui inseguendo il sogno di studiare musica lirica: malgrado tutti i film americani mostrino gli italiani intenti a cantare l’opera, non mi sembra che ci sia da noi tutto questo entusiasmo per un genere musicale invece molto amato all’estero. Visto che l’opera parla italiano, Eriko sin da giovane ha iniziato a studiare questa lingua, e in un recente video ci racconta di aver seguito un’iniziativa della TV nazionale giapponese: una trasmissione radiofonica e/o televisiva che insegnava l’italiano (oltre a tante altre lingue) anche mediante dispense cartacee mensili.

Corso di italiano a cura della televisione nazionale giapponese

Nel video pubblicato domenica 14 febbraio, Eriko mostra i fascicoli su cui ha studiato l’italiano, e subito salta all’occhio una curiosità: l’uso di parole che italiane non sono. Chissà cosa pensano gli studenti stranieri di una lingua che usa parole di altre lingue: magari pensano che non abbiamo sufficienti parole…

Come si vede nell’immagine qui sopra, un esempio classico di conversazione da corso di lingue (cioè uno scambio di battute tra cameriere e clienti) mostra la parola “menù“, un termine francese che è entrato in pianta stabile nella nostra lingua tanto da non avere un termine alternativo altrettanto efficace (anche se si potrebbe dire “lista”). Ormai il danno è fatto, non possiamo farci niente… invece possiamo fare qualcosa per l’esempio successivo.

L’itanglese insegnato ai giapponesi

Quello mostrato qui in alto è un testo italiano inserito nel fascicolo come prova di lettura per gli studenti ormai già pratici della lingua: c’era proprio bisogno di usare già nel titolo l’inglesismo single?

La beffa è che nel primo paragrafo, quando l’autore parla dei tempi del nonno, usa tranquillamente il termine “celibe” e racconta della “Tassa sul celibato“. Quindi mi azzarderei a dire che la parola italiana esiste: perché allora dal secondo paragrafo usa esclusivamente il termine single?

Il testo in questione è rivolto a degli studenti giapponesi che stanno imparando la lingua italiana: c’era proprio bisogno di usare un termine di una terza lingua? Dubito fortemente che nei fascicoli del corso di inglese siano presenti termini italiani! Quando poi gli studenti giapponesi arriveranno in Italia, avranno tempo per scoprire che qui l’italiano non esiste; avranno tempo di sentire italiani che riempiono le proprie frasi con parole straniere non sempre ben capite: perché almeno nei manuali di lingua italiana non usare la lingua italiana? È così assurdo?

So che i negazionisti e collaborazionisti hanno già la risposta in tasca: “single è qualcosa di diverso da celibe”. No, ragazzi, non lo è. Lo è solo perché a voi piace “parlare strano”, vi fa sentire fighi e così vi appellate all’assurda teoria del «Non si può dire altrimenti». Sì, si può dire altrimenti. E ogni fantomatica valenza data a single per convincersi che valga più di “celibe” la si può dare anche al termine italiano.
E però single vale sia per uomini e donne, mentre “celibe” è maschile. Ah però, mi avete fregato. Scemo io a pensare che se ci si riferisce a sessi diversi si debbano usare parole diverse. Eppure “zitella” è un termine molto usato, nessuno ha pensato di sostituirlo con un termine inglese per includere anche i maschi “zitelloni”.

Io sono single, ma sulla mia carta d’identità c’è scritto: “Stato libero“. Ah, che bella espressione, positiva e rinfrescante. Non sentite già la voce di Martin Luther King che grida «Free at last», finalmente liberi? No? Dite che “La generazione dei liberi” non rende bene?

Avanzo allora un’altra proposta: diciamo “singoli“, eh? “La generazione dei singoli“, che ne dite? Io sono singolo, lei è singola, loro sono singoli… Lo so, non è in, non è fashion, non ha sex appeal, insomma non è itanglese, quindi niente. Solo le parole straniere valgono: per questo ascolto gli stranieri parlare italiano, perché – pare incredibile – usano parole italiane!

L.

– Ultimi post simili:

 
13 commenti

Pubblicato da su febbraio 22, 2021 in Linguistica

 

Dampyr o Dampiro? Italiani coraggiosi

Come racconto nel Zinefilo di oggi, il film BloodRayne 2 (2007) ha una particolarità rispetto al precedente BloodRayne (2005): la protagonista rimane una “mezzo-sangue”, cioè mezza umana e mezza vampira, ma nel primo film (portato in Italia da Fox Video) Rayne definisce se stessa dampyr, mentre nel secondo (curato dalla 01 Distribution) il doppiaggio opta per “dampira“.

All’inizio ho sghignazzato davanti a questa strana parola, perché vivendo nella contemporaneità non sono più abituato a parlare italiano, essendo l’italiano ormai composto in larga parte da termini inglesi, ma poi pensandoci ho lodato la scelta della direzione del doppiaggio: se vampir è diventato vampiro, perché mai dhampir non dovrebbe diventare dampiro?

Mentre nascono Frutti del Demonio come south working, cioè il telelavoro attuato nel Sud Italia (vi prego, chiamate l’Esorlinguista!), ci sono autori coraggiosi che combattono contro le bufere della moda per raggiungere la Balena Bianca dell’italiano in italiano.


Vampir = Vampiro

«Alcune volte un Vampiro mette a rumore tutto un paese, si scaglia addosso ai viventi senza farsi vedere, succhia loro il sangue, e a poco a poco li consuma.»

Questo passaggio alla data dell’ottobre 1746 delle “Memorie per la storia delle scienze“, edito da Gavelli nel 1747, dimostra che il termine “vampiro” viene usato nella lingua italiana tranquillamente già nella metà del Settecento, in attesa di conoscere futuro enorme successo, grazie ad una narrativa di genere sterminata.

Almeno dal Settecento “vampiro” è un termine entrato nell’italiano

Il brano in questione è poi il resoconto di un saggio del francese Calmet, infatti in un dizionario francese del 1749 si legge: «VAMPYR, ce mot en esclavon signifie sangsue», e mi fa piacere notare come il traduttore del citato film BloodRayne 2 all’originale blooodsucker sostituisca proprio l’italiano “sanguisuga”, sebbene in tempi recenti sembri piacere di più “succhiasangue”:

La Treccani ci dice che è proprio dal francese che ci arriva il termine, anche se altri dicono dal tedesco, comunque è sicuro che non è italiano, ma è entrato subito in pianta stabile nella nostra lingua con una semplice italianizzazione: da vampir (o vampyr, o wampyr e via dicendo) a “vampiro”. Un’operazione che l’italiano ha eseguito sempre nella sua storia, importando un numero sconfinato di parole straniere nel proprio dizionario semplicemente “italianizzandole”. Oggi purtroppo non si usa più, almeno per l’inglese.


Dhampir = Dampyr

«Secondo le antiche credenze del folklore slavo, il dampyr è il figlio nato dall’unione tra una donna e un vampiro»: con queste parole d’introduzione nell’aprile 2000 prende il via la testata a fumetti “Dampyr” (Sergio Bonelli Editore), ancora attiva dopo vent’anni quindi immagino gradita ai lettori.

da “Dampyr” n. 1 (aprile 2000), pagina 45 – Disegni di Mario Rossi (Majo)

Il fumetto in questione è “moderno”, quindi adotta una struttura tipica dell’italiano moderno: prendere un termine straniero e renderlo straniero in altro modo. Così come chiamiamo talk show quello che in realtà si chiama chat show, così è più facile trovare dampyr come “traduzione” di dhampir o dhampyr. Sarebbe così ridicolo chiamarlo “dampiro”, visto poi che assomiglierebbe giustamente a “vampiro” di cui è parente?

Qualche coraggioso c’è, ma gli italiani che hanno il coraggio di usare l’italiano sono più rari… dei dampiri!


Italiani coraggiosi

«Sono un dampiro, un sanguemisto»: così scrive l’italiana coraggiosa Raffaella Barcella nel suo romanzo “La maledizione di White Manor” (Lettere Animate, 2017). È l’unica autrice che ho trovato con abbastanza coraggio da usare il termine: chiunque sappia di altri casi mi faccia sapere.
Invece ho trovato casi di traduttori coraggiosi.

Con il primo romanzo di una lunga saga, “Black Moon. L’alba del vampiro” (Full Moon Rising, 2006; in Italia, Newton Compton 2010) dell’autrice australiana Keri Arthur, nasce un bel problema: la protagonista è una dhampire… tradurre o lasciare così? Daniela Di Falco è un’italiana coraggiosa e traduce: «Dhampiri. Discendenti di vampiri appena trasformati». È una traduzione “leggera”, con quella lettera “h” mantenuta, ma è sempre italiano quindi va lodato.

Le traduttrici dei successivi romanzi – Monica Ricci, Milvia Faccia, e Stefania Di Natale – non solo sono italiane coraggiose perché mantengono questa scelta di italianizzare il termine dhampire, ma vanno applaudite doppiamente perché fanno qualcosa che i doppiatori di solito non fanno: si uniformano ai nomi usati nei precedenti episodi di una saga. Chiedetelo ai traduttori della Fondazione di Isaac Asimov, che ad ogni romanzo cambiano alcuni nomi dei personaggi…

Arrivati al sesto romanzo della saga, qualcosa cambia. «Ero un dampiro – ero nata da un umano appena trasformato in vampiro e da un licantropo che lo aveva violentato e poi ucciso», si presenta la protagonista di “Black Moon. Un bacio prima di morire” (The Darkest Kiss, 2008; in Italia, Newton Compton 2011) di Keri Arthur: la traduttrice Daniela Di Falco torna per italianizzare ancora di più il termine!

«Io ero un dampiro, metà licantropo e metà vampiro», ribadisce l’autrice in “Black Moon. L’ombra del cuore” (Bound to Shadows, 2009; in Italia, Newton Compton 2012), con la traduzione stavolta di Rosa Prencipe che mantiene la scelta coraggiosa. Da notare come la Newton Compton, editrice della lunghissima serie di romanzi “Black Moon”, si guarda bene dall’usare il termine nel proprio catalogo, preferendo riferirsi alla protagonista con «metà vampiro e metà lupo mannaro».

«Sono un dampiro», troviamo nel romanzo “Il diario degli angeli. Creature della notte” (Strange Angels, 2009; in Italia, Newton Compton 2010) di Lili St. Crow, grazie al traduttore coraggioso Alberto Frigo, che traduce anche l’episodio successivo mentre il terzo romanzo, Gelosia, tocca ad Alessandra Spirito: «I dampiri cui era stato assegnato il compito di “sorvegliarmi”». Anche Alessandra è un’italiana coraggiosa!

Possibile si debba essere così “coraggiosi” per parlare nella propria lingua? A quanto pare sì.

L.

– Ultimi post di linguistica:

 
16 commenti

Pubblicato da su settembre 15, 2020 in Linguistica

 

L’itanglese della Rizzoli (2020)

Ho letto recentemente “Ombre nella notte” (The Shape of Night, 2019), il nuovo romanzo di Tess Gerritsen portato in Italia da Rizzoli a fine aprile 2020 e che ho già recensito.

Ho voluto fare un post a parte per parlare di una particolarità di questo romanzo che l’accomuna (purtroppo) ad una crescente fetta di comunicazione in Italia: l’uso dell’itanglese. Malgrado alcuni si ostinino ad ignorare l’entità abnorme del fenomeno, l’Italia è praticamente l’unico Paese al mondo che NON usa la propria lingua nell’esprimersi, preferendo un minestrone confusionario di termini inglesi che non sempre sono comprensibili a chi legge, spesso neanche a chi scrive.

Molti Paesi hanno il bilinguismo, e in tempi di globalizzazione conoscere una lingua abbastanza universale come l’inglese è cosa buona e giusta: il problema è che in Italia non esiste il bilinguismo, esiste la Lingua di Renato Carosone. Chi usa termini inglesi troppo spesso non lo fa con cognizione ma “vuo’ fa’ l’americano”, storpiando termini ed espressioni nel tentativo di sembrare alla moda…bevendo whisky and soda!
Quell’usanza dell’immediato dopo-guerra che Carosone prendeva in giro con la sua celebre canzone è purtroppo oggi legge nazionale: ogni singola struttura del Governo italiano – che per legge è obbligata ad esprimersi in lingua italiana così che ogni cittadino abbia la possibilità di capire – infarcisce i propri testi di un indigesto inglesorum (come il latinorum che si criticava una volta) con il sospetto obiettivo di non volersi far capire apposta.

Tutti si sentono smart a fa’ l’americani, malgrado le statistiche ci dicano che molti connazionali non capiscono manco l’italiano, così la lingua sta pericolosamente mutando e traduzioni come questa della Rizzoli ne sono uno specchio, anche se in questo caso presenta ancora “difetti” quantitativamente accettabili.

Voglio ben specificare che quanto scriverò di seguito non dev’essere in alcun modo imputato alla traduttrice del romanzo, visto che si è semplicemente conformata a quanto prevede la moda in Italia: ce l’ho con la moda, non con lei.

Read the rest of this entry »

 
Lascia un commento

Pubblicato da su giugno 3, 2020 in Linguistica

 

Gli acchiappa-zombie (1940-1953)

Dopo una vita riesco finalmente a raccontare un curioso fenomeno linguistico, nel mio annoso studio della parola zombie.


1. La donna e lo spettro

Finita la Seconda guerra mondiale, i film americani possono tornare a riempire le sale italiane. Nel luglio 1946 è la volta de “La donna e lo spettro” (The Ghost Breakers, 1940) tratto da uno spettacolo teatrale di Paul Dickey e Charles W. Goddard, «Una specie di doccia scozzese di gelidi spaventi e di calda ilarità», come recita un quotidiano dell’epoca. In pratica sconosciuto nei decenni a venire, la sempre lodevole Sinister Film lo recupera in DVD nel 2012.

Mary Carter (Paulette Goddard) ha ereditato dalla famiglia un “castello maledetto” (così è sempre chiamato) a Black Island, isolotto di Cuba. Partendo alla volta dell’isola si imbatte in Lawrence (Bob Hope), celebrità radiofonica che ha appena rivelato a milioni di ascoltatori le attività criminali di un boss di New York, e per una serie di rocambolesche avventure («Morire è niente, ma odio i preliminari») seguirà la donna fino a Cuba.

Siamo in un’epoca dorata quindi sono tutti ricchi, tranne i cubani, e Mary passa le sere per locali ma poi dovrà andare a visitare questo benedetto… anzi, maledetto castello, intorno al quale ruotano misteriosi interessi che poco importano in questo momento.

Gli eroici ghost breakers

Temo che gli autori stessero pensando ai Caraibi, comunque scopriamo che a Cuba i locali sono dediti a misteriosi culti.

«Ero scettico anch’io, finché non vidi con i miei occhi quelle forze maligne: un prete li chiamerebbe demòni, gli indigeni invece li chiamano vòdo

Quel vòdo è la resa del doppiaggio italiano del termine voodoo, che noi oggi pronunciamo vudù.

Black Island, patria del vòdo

Data l’aura paranormale, il comico Bob Hope si presenta ad uno dei personaggi come «cacciatore di spettri» (ghost breakers), l’interlocutore dà segno di non capire l’espressione che dà il titolo al film, segno che non è comune nel linguaggio, come invece diventerà ghost busters dal 1985.

Più che uno zombie sembra un dormiglione

Giunti finalmente al castello, scopriamo lo «zòmbi», pronunciato con la “o” aperta mentre in tempi più recenti si preferisce quella chiusa. «Siamo in pieno vodismo», spiega un personaggio:

«Quando uno muore e viene sepolto pare ci siano dei preti vòdo che hanno il potere di farlo resuscitare. Lo zòmbi non ha una sua volontà. Alle volte lo si vede camminare con gli occhi spenti, eseguendo ordini senza sapere ciò che fa e senza neppure curarsene.»
«Ah, come un tedesco!»

La freddura di Bob Hope esiste solo nel doppiaggio italiano, che all’epoca aveva gioco facile ad associare i tedeschi (cioè nazisti, per estensione popolare) agli zombie, invece in originale la battuta è «You mean like democrats?» Di certo al pubblico italiano importava poco del partito democratico americano dell’epoca.

Uno splendido zombie del 1940

Tutto si risolverà fra gridi e splendide scenografie in bianco e nero, dove Hope e Alex (il suo aiutante nero che fa il “negro”, cioè la parte del servo buono ma sciocco e che parla strano, ruolo per fortuna non sopravvissuto all’epoca) si lanciano in situazioni comiche datate ma perfettamente in linea con i tempi.

Nella sua frizzante biografia semi-seria “They Got Me Covered” (1941), Bob Hope così scrive:

«Abbiamo usato uno Zombie in Ghost Breakers. Uno Zombie non ha pensiero proprio e cammina in giro senza sapere dove vada o cosa stia facendo… Ad Hollywood li chiamano “pedoni”.»

Quante battute si possono fare sul termine? Tante, a quanto pare, ma ciò che conta è che questo film ha conosciuto un rifacimento posteriore, in tempi in cui gli zombie sono decisamente più famosi. Come saranno trattati dalla storia e dal doppiaggio italiano?


2. Morti di paura

Negli anni Cinquanta l’esplosione inarrestabile di due comici fa venire in mente alla Paramount di avere un film che sembra cucito addosso ai due: perché non lo rifacciamo identico? Nasce così “Morti di paura” (Scared Stiff, 1953) di George Marshall, recuperato in DVD A & R Productions nel 2013. Non è un remake de La donna e lo spettro: è la sua fotocopia, utilizzando le stesse identiche location e lo stesso copione, ma Bob Hope diventa Dean Martin e il servo scemo… Jerry Lewis!

Il doppiaggio italiano nel frattempo si rende conto che non ha senso pronunciare vòdo e così si aggiorna in vùdu, anche se noi oggi di solito diciamo vudù. Così la “o” aperta torna chiusa per zómbi, che però all’inizio Jerry pronuncia con la “p” perché deve fare la battuta: «zómpi: io credevo fosse una danza». In originale credeva fosse un cocktail.

Black Island diventa Isola Nera ma soprattutto cambia la battuta satirica di Bob Hope, secondo cui uno zombie senza volontà era simile ad un democratico: Jerry preferisce «È come un marito».

Il resto del film è identico, scena per scena, battuta per battuta, cambiando giusto qua e là per giustificare le tante canzoni e spettacolini di varietà dei due comici, che sembrano due mattacchioni che si divertono tutto il tempo.

Jerry Lewis che fa l’imitazione di uno zombie

In realtà il 1952 è un periodo burrascoso per Dean Martin e Jerry Lewis, e per avere un’idea dell’aria che tira basti dire che le riprese dovevano cominciare il 31 marzo ma i due non si sono presentati sul set, in pieno “sciopero”. Cinque anni prima hanno firmato un contratto per più di un milione di dollari che sembravano tanti, ma gli stravizi costano e ora non vedono l’ora che il contratto scada per poter alzare la posta, così fanno i capricci. Il Copacabana ha pagato loro più di 30 mila dollari per averli ospiti sul palco durante le riprese del film ma i due continuano i loro capricci: che si riprendano pure i soldi. Jules Podell, direttore del Copacabana, non vuole i soldi, vuole i comici che assicurano il tutto esaurito ogni sera, così fa un esposto all’American Guild of Variety Artists, che chiama i due attori a rapporto per ascoltare i motivi per la loro defezione. Dean e Jerry sono così potenti che se la ridono: che venga la American Guild da loro, se proprio vogliono sentirli.

I capricci funzionano e i due a maggio ricevono un nuovo contratto, ben più ricco – invece di un milione per cinque anni, si vola sul milione l’anno! – così possono iniziare le riprese, nel giugno successivo. Con Dean e Jerry ormai a dieci metri d’altezza rispetto a tutti gli altri.

La giovane attrice Dorothy Malone, loro co-protagonista, sta vivendo un brutto periodo perché ha appena perso il fratello. Lo sanno tutti sul set, ma quando si presenta con una piccola auto “vissuta”, Jerry Lewis ha la delicatezza di dirle: «Buon Dio, sbarazzati di quel cestino della spazzatura». L’attrice non l’ha presa bene, infatti racconta l’aneddoto – finito nel biografico “Dino. Living high in the dirty business of dreams” (1992) di Nick Tosches – come ad indicare una mancanza di tatto dell’attore, mentre Dean Martin si dimostra molto più delicato e l’aiuta molto sul set.

Per capire come lavora il produttore Hal Wallis, autore del successo dei due comici, ci viene in soccorso proprio Jerry Lewis, che nella sua biografia “Dean & Me (A Love Story)” (2005), scritta con James Kaplan, racconta di quando Norman Lear è stato ingaggiato per rimaneggiare la sceneggiatura di Scared Stiff. Essendo un grande fan di Dean Martin, ha cominciato a scrivere scene aggiuntive su di lui e a prendersi molte libertà, finché Hal Wallis – che aveva rifiutato tutte quelle modifiche – lo chiama e gli svela il segreto del successo della coppia comica:

«Un film con Martin e Lewis costa mezzo milione di dollari e ne guadagna automaticamente tre milioni mediante una semplice formula: Jerry è l’idiota, Dean è il gagliardo che canta e si becca la donna. Tutto qua.»

Da ragazzino degli anni Ottanta adoravo questi film – tranne per le noiose canzoni di Dean Martin – quindi posso testimoniare che il sistema funzionava.

L.

– Ultimi post simili:

 
8 commenti

Pubblicato da su Maggio 18, 2020 in Linguistica

 

Tag:

Dizionario italiano-giornalese!

Voi li capite i TG di questi giorni? Dall’inizio della terribile pandemia che ci ha colpiti i giornalisti hanno aumentato la dose di termini itanglesi: perché quello che per decenni si è chiamato telelavoro… ora tutti lo chiamano smart working? Il Governo parla di cluster, i social ce l’hanno coi runner, l’Italia è finita nel lockdown… boh, ci vorrebbe un dizionarietto per capire le informazioni dei TG… e ora c’è!

Questa mia premessa sarcastica serve a presentare questo post di Zoppaz, che ha pensato bene di spiegare in italiano i tanti termini itanglesi snocciolati dai giornalisti di questi giorni: fateci un salto, e nel caso proponete inglesismi mancanti all’appello. Sono sicuro che lo sviluppo del virus nei Paesi anglofoni ce ne regalerà di sempre nuovi.

L.

 
3 commenti

Pubblicato da su marzo 26, 2020 in Linguistica

 

Divorzio causa androide (1953)

Sul finire della sua vita Isaac Asimov, grande padre di concetti robotici sin dagli anni Quaranta, insieme a Robert Silverberg immaginò un androide che lottasse per ottere gli stessi diritti umani, ma già nel 1953 l’idea non solo era apparsa, ma già ampiamente superata, parlando dei problemi che questa eventuale legge delle “pari opportunità” creerebbe. E se un uomo chiedesse il divorzio perché la prima notte di nozze si è accorto… che la moglie è un’androide?

Il divertente ma stuzzicante spunto è alla base del racconto lungo “Made in U.S.A.” di J.T. McIntosh che apre il numero dell’aprile 1953 (volume 6, numero 1) della storica rivista americana “Galaxy“.

Il testo di una trentina di pagine arriva nel nostro Paese grazie alla collana “Nova SF” (Perseo Libri) di Ugo Malaguti, che però solo nell’aprile 2000 presenta il racconto, con la traduzione di Lella Moruzzi, nell’antologia “Storie della vecchia Terra“, anno XVI (XXXIV) n. 42 (84): è l’unica edizione nota del racconto in Italia.

«Un’androide!» eruppe lui in modo perverso.

Il grido “perverso” (viciously) del protagonista Roderick si deve al fatto che la donna che ama, Alison, è in realtà un’androide, termine usato sia come aggettivo che come sostantivo, denotando una confusione che purtroppo dura ancora oggi, nella lingua inglese. Considerandolo a torto un termine neutro, come abbiamo visto, gli anglofoni ignorano la radice andr-, “uomo”, e usato la parola tranquillamente anche per le donne. Purtroppo spesso i traduttori vanno loro dietro, limitandosi ad un apostrofo come unica concessione al femminile.

«Oggi si fa la Storia, col primo caso di divorzio fra un umano e un’androide da quando recentemente è stata riconosciuta agli androidi la totale uguaglianza dal punto di vista legale.»

Sembra una America liberale, quella del futuro, che addirittura garantisce uguaglianza a non umani, ma trattandosi di esseri in tutto e per tutto identici agli umani la cosa viene facile. Generando però confusione: proprio come l’omosessualità, gli androidi non sono costretti a dichiararla né è consentito chiedergliene conferma. Così Alison ha taciuto a Roderick di essere nata in laboratorio, crescuita poi in una famiglia adottiva, e questo ha portato l’uomo a processo: lui vuole una prole numerosa, che un’androide tecnicamente non può garantirgli.

Illustrazione di EMSH (Ed Emshwiller)

«Gli androidi non sono altro che persone. Per niente diversi dagli umani, se non per il fatto di essere creati artificialmente anziché nascere naturalmente.»

Il razzismo umano non ha confini, per cui espressioni come «sporca androide» (dirty android) si possono sentire durante il processo di divorzio, in cui si cerca di capire cosa sia l’umanità, prima di passare a capire l'”androidità”. Il fatto che l’umanità sterile si stia drammaticamente riducendo di numero, e se non fosse per gli androidi servizievoli la civiltà sarebbe già crollata, ci fa capire come già nel 1953 era chiaro ciò che oggi i politici fanno ancora finta di non aver capire: senza lo “straniero” (cioè chi è diverso da noi pur essendo uguale, proprio come gli androidi) siamo destinati all’estinzione.

«i figli degli androidi non possono essere degli androidi, o no?»

Vogliamo toccare anche il tema del ius soli? I figli degli immigrati non possono essere immigrati, no? Insomma, è chiaro che McIntosh usi lo strumento dell’androide per affrontare molti temi di scottante attualità già negli anni Cinquanta, gli stessi identici d’attualità ancora oggi, perché nessuno da allora si è preso la briga di risolverli, al massimo ha messo una toppa qua e là.

«errare è umano… e, se mi è concessa la battuta, è anche androide.»

L’autore non è interessato ad approfondire temi robotici, i suoi androidi sono semplici stranieri che devono combattere con il razzismo e la violenza degli “umani” (che di umano in realtà hanno ben poco), dimostrando allo stesso tempo come certi termini stessero uscendo dal ghetto della narrativa di genere per assumere valenze più universali. Basterà instillare il dubbio che Alison possa avere figli per risolvere il processo in un volemose bbene, ma intanto i semi sono piantati: robot e androidi sono pronti a conquistare l’immaginario collettivo ed ogni universo narrativo.

L.

– Ultimi post simili:

 
2 commenti

Pubblicato da su marzo 4, 2020 in Linguistica

 

La lingua di Vivere due volte (2019)

Mi è capitato di vedere il film Netflix “Vivir dos veces” (2019) della spagnola Maria Ripoll, reso in italiano con “Vivere due volte” forse in onore ad uno dei rari film della regista giunti in Italia, Due volte ieri (1998).

Il film è delizioso e tratta con mano leggera e tocco delicato un tema profondamente drammatico. Infatti al protagonista Emilio (lo strepitoso bonaerense Oscar Martínez) viene diagnosticato un Alzheimer che sembra ancora lontano, visto che il professore universitario di matematica sembra nel pieno possesso di tutte le facoltà mentali che hanno forgiato la sua vita e le sue scelte, ma ben presto diventa chiaro che la malattia sta procedendo in modo inesorabile.

Per tutta la vita Emilio si è immerso nello studio con un solo obiettivo, forse inconscio o forse no: dimenticare Margarita, l’unica donna che abbia davvero amato profondamente. Una storia di gioventù, roba passata, poi si è sposato e ha avuto una figlia che ora è mamma anche lei… ma cinquant’anni non sono niente, e il ricordo è ancora lì. Ora però l’Alzheimer riuscirà dove Emilio ha fallito: dimenticare Margarita. Prima che questo succeda… l’anziano professore vuole ritrovarla, per sapere se anche lei ha pensato a lui.

Lo sgangherato road movie con figlia e nipote al seguito si separa subito dal canone americano per ritmo e trovate, tutte molto più di gusto europeo e studiate in modo da non far mai pensare allo spettatore di poter anticipare lo svolgimento della splendida sceneggiatura di María Mínguez, che giunge inesorabile ad un finale potente e delizioso, che sarà impossibile affrontare con gli occhi lucidi.

Oltre a consigliarvi il film, mi piace segnalare alcune chicche linguistiche.

Non chiamatelo sudoku, bensì “quadrato magico”

L’inizio della storia ci presenta il professore brontolone al bar, intento a fare un sudoku. «Non si chiama sudoku: si chiama quadrato magico! I giapponesi credono di averlo inventato loro, ma hanno solo messo il nome a qualcosa che già esisteva.»

L’accorato appello di Emilio ad usare un’espressione della propria lingua, cuadrado mágico, per ciò che tutti chiamano sudoku va ben oltre il riferimento storico – visto che, secondo Wikipedia, già nel 1892 “Le Siècle” pubblicò un carré magique da far risolvere ai lettori – mi piace leggerci anche un piccolo singulto di amore linguistico che è bello trovare ogni tanto in giro per l’Europa “colonizzata”.

Scusa, che lavoro hai detto che fa tuo padre?

Che sotto traccia ci sia la voglia di lanciare stoccatine lessicali la si può avvertire quando Emilio chiede alla nipotina che mestiere faccia suo padre:

Coaching.
— ¿El qué?
— Una profesión que se ha inventado él para no admitir que está en el paro.

La contrapposizione fra inglese e spagnolo del testo originale si perde nella resa italiana – curata da CD Cine Dubbing – ma rimane intatto il sarcasmo:

Formazione.
— Che cos’è?
— È una professione inventata per non ammettere che è disoccupato.

L’adattamento italiano curato da Fausta Fascetti dunque traduce coaching, lasciato invece in originale in altre lingue, il che ci fa ben sperare in rese italiane più attente, in futuro. L’espressione tornerà più avanti e dimostrerà che possiamo benissimo tradurre anche ciò che vogliono spacciarci come intraducibile: la parola  coaching lascia lo stesso grado di vaghezza di formazione, quindi il sarcasmo sul padre disoccupato è perfettamente reso nella nostra lingua.

Ridere in faccia alla Citroën

Partiti a bordo di una vecchia Citroën CX 25 RD Turbo, nonno e nipotina ne approfittano per uno scontro culturale: l’autorevole professore universitario ovviamente ha subito la peggio contro la generazione che vive con lo smartphone in mano, che chiama «móvil».

Il nonno brontolone punzecchia la ragazzina dicendole «Vedo che ti piace dedicare il tuo tempo a stupidaggini», al che lei risponde «LOL». Emilio non conosce il “linguaggio delle chat” quindi non sa che LOL è la sigla di Laughing Out Loud, (o Lots Of Laughs a seconda delle fonti), così la ragazzina glielo spiega: «È uno spasso, mi diverto». (Me parto, me troncho)
«Ah, è come “rido a crepapelle“» sghignazza Emilio, usando in originale il delizioso «¡Qué risa, tía Felisa!». La versione inglese del film, Live twice, love once, traduce con «splitting your sides», mentre quella francese, Vivre deux fois, «quelle rigolade, les amis!»: tutti modi di dire sostituiti da tre semplici lettere, LOL, nate per economizzare nella scrittura ma poi entrate nel linguaggio comune.

Applicare tag agli LP

Quando Emilio non riesce più a ricordare il contenuto degli dischi di musica che ha collezionato per una vita, la nipotina si offre di preparargli delle etichette (etiquetas), al che il nonno ha un sussulto: «Como las etiquetas de facebook».
La presa di coscienza di Emilio è tradotta fedelmente in italiano, «come le etichette di facebook», ma tutti sappiamo che non esistono “etichette” in facebook: esistono tag. Nessun italiano parla italiano, nei social.

«Like tags on facebook» rende giustamente la versione inglese, «Comme des tags sur facebook» rende il francese, dimostrando d’aver perso da tempo la sua battaglia contro gli inglesismi.
Plaudo alla scelta della nostra Fausta Fascetti di italianizzare gli inglesismi, perché altrimenti non si sarebbe capito perché la nipotina volesse mettere delle tag sui dischi del nonno: visto che “etichetta” è la perfetta traduzione italiana di tag, in qualsiasi ambito il termine venga usato, direi che è un’ottima scelta.


Il bilancio è incredibile: la versione italiana del film è più regionalizzata di quella inglese e francese, che si limitano ad usare inglesismi: vuoi vedere che il 2020 sarà l’anno dove saremo tutti più sensibili alla nostra povera lingua massacrata?

L.

– Ultimi post simili:

 
5 commenti

Pubblicato da su febbraio 10, 2020 in Linguistica