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L’itanglese della Rizzoli (2020)

03 Giu

Ho letto recentemente “Ombre nella notte” (The Shape of Night, 2019), il nuovo romanzo di Tess Gerritsen portato in Italia da Rizzoli a fine aprile 2020 e che ho già recensito.

Ho voluto fare un post a parte per parlare di una particolarità di questo romanzo che l’accomuna (purtroppo) ad una crescente fetta di comunicazione in Italia: l’uso dell’itanglese. Malgrado alcuni si ostinino ad ignorare l’entità abnorme del fenomeno, l’Italia è praticamente l’unico Paese al mondo che NON usa la propria lingua nell’esprimersi, preferendo un minestrone confusionario di termini inglesi che non sempre sono comprensibili a chi legge, spesso neanche a chi scrive.

Molti Paesi hanno il bilinguismo, e in tempi di globalizzazione conoscere una lingua abbastanza universale come l’inglese è cosa buona e giusta: il problema è che in Italia non esiste il bilinguismo, esiste la Lingua di Renato Carosone. Chi usa termini inglesi troppo spesso non lo fa con cognizione ma “vuo’ fa’ l’americano”, storpiando termini ed espressioni nel tentativo di sembrare alla moda…bevendo whisky and soda!
Quell’usanza dell’immediato dopo-guerra che Carosone prendeva in giro con la sua celebre canzone è purtroppo oggi legge nazionale: ogni singola struttura del Governo italiano – che per legge è obbligata ad esprimersi in lingua italiana così che ogni cittadino abbia la possibilità di capire – infarcisce i propri testi di un indigesto inglesorum (come il latinorum che si criticava una volta) con il sospetto obiettivo di non volersi far capire apposta.

Tutti si sentono smart a fa’ l’americani, malgrado le statistiche ci dicano che molti connazionali non capiscono manco l’italiano, così la lingua sta pericolosamente mutando e traduzioni come questa della Rizzoli ne sono uno specchio, anche se in questo caso presenta ancora “difetti” quantitativamente accettabili.

Voglio ben specificare che quanto scriverò di seguito non dev’essere in alcun modo imputato alla traduttrice del romanzo, visto che si è semplicemente conformata a quanto prevede la moda in Italia: ce l’ho con la moda, non con lei.


La protagonista del romanzo è Ava Collette, che di mestiere fa la foodwriter, perché “scrittrice di cucina” è troppo provinciale, sembra una vecchia comare che pubblica le ricette paesane. Su questo punta chi vuole fregarci con l’itanglese: vuole convincerci che una lingua diversa sia “alla moda” e possa cogliere molto meglio concetti che l’italiano, lingua vecchia e paesana, non è capace di fare. Tutto falso, ma le sirene smart a quanto pare sono irresistibili.

Prima del 1985, con il celebre film, non era noto il mestiere di “acchiappa-fantasmi“, non lo si può accusare di provincialismo, e un termine apparso in quei Santi Anni Ottanta che oggi tutti venerano sarà sicuramente accattivante… ma no, durante le sue ricerche sulla casa stregata Ava ingaggia una ghost hunter: diciamo che i nomi delle professioni ora vanno tutti in inglese. Solo i nomi, non le azioni, perché la ghost hunter si impegna in una «caccia ai fantasmi»: perché non in una ghost hunting?

Ava, come tutte le donne viste al cinema e in TV, beve come un intero esercito di pirati alcolizzati, ma mica roba provinciale, no: lei beve whisky single malt. Perché “malto singolo” non è buono, a dirlo inglese ha più sapore. Prende anche medicine leggendo prima le istruzioni sul “bugiardino“: toh, e come mai un termine così esageratamente italiano? Nel testo originale è scritto «instructions on the packet» e visto che in Italia non ci sono istruzioni sulla confezione è giusto indicare il foglietto interno, ma mi sarei aspettato un flyer, non un italianissimo “bugiardino”: alla Rizzoli dev’essere sfuggito questo imperdonabile provincialismo paesano.

Quasi a compensare si ritorna subito all’itanglese pesante. Il terrazzino della casa si dice widow’s walk, termine proprio del Maine perché lì le vedove fissavano il mare pensando ai mariti: capisco che sono un pazzo a pensare che Passeggiata della Vedova avrebbe funzionato allo stesso modo.
Nel Maine si va in barca su uno schooner o in uno sloop, e tutti i lettori sanno perfettamente cosa vogliano dire questi termini. A dire “goletta” o addirittura usare un termine più arcaico come “scuna” si rischiava di ricordare ai lettori che l’Italia ha una tradizione marinaresca e quindi una lingua per indicarla: cose brutte che nessuno vuole sapere. Non sono smart.

Nel Maine non sono mica buzzurri come gli italiani, non si mangia mica ai camioncini ambulanti, no: si mangia ai food truck, che è molto più di classe. Scusate, è molto più classy. E cosa si mangia? Astice… Oh, come astice? E io vado in un food truck del Maine, dopo aver navigato in schooner, a mangiare un qualcosa che ha un nome italiano? Non scherziamo: lo sanno tutti che il prodotto tipico del Maine è il lobster, lo si vede al cinema e in TV, quindi perché lasciare intradotto food truck, intradotto schooner e sloop ma tradurre lobster? Cos’è questa traduzione a leopard spot (macchia di leopardo)? Sarcasmo a parte, non sarebbe meglio tradurre tutto il traducibile invece di affaticarsi a scegliere ogni volta quale lingua usare?

Il gioco continua con una «chowder di pesce»: ma che roba è? Sicuramente le lettrici italiane di Tess Gerritsen sono tutte esperte di cucina, ma io non lo sono e quindi cerco su Google: la definizione è “zuppa di pesce“. E perché stra-cacchio non avete scritto “zuppa di pesce”? Sicuramente la chowder di pesce sarà molto più buona, ma a meno che la Rizzoli non mi inviti a pranzo non ha alcun interesse ai fini della lettura.
Perché io che sono italiano e compro un libro scritto in lingua italiana devo ritrovarmi costretto ad avere al fianco un dizionario di inglese?

Beefsteak tomato

Poi Ava va a fare la spesa, ma mica al supermercato come noi contadini ignoranti, no: lei va al Village Food Mart: az’, che sciccheria! E cosa compra?

«Sono nel reparto ortofrutta davanti al misero assortimento di lattuga (iceberg o romana), pomodori (cuore di bue o ciliegini) ed erbe aromatiche (prezzemolo e basta).»

Ma come, un posto così di classe che vende la popolana e volgare lattuga romana? Comunque questa breve lista della spesa fa capire il marasma completo in cui è finita la lingua italiana e i poveri traduttori non sanno più che fare: cosa tradurre e cosa no?

Lattuga Iceberg (io ne vado ghiotto e ne mangio in gran quantità!) è entrato in pianta stabile nel nostro linguaggio, mentre sarebbe stato strano lasciare intradotto lattuce romaine quando la lattuga romana è appunto romana. Ma allora il beefsteak tomato è americano, perché tradurlo con “pomodoro cuore di bue”? Perché l’espressione esiste in italiano? Non è un motivo sufficiente, visto che tutte le parole citate più sopra hanno il perfetto corrispettivo italiano, del tutto ignorato.

A cosa serve la traduzione? A rendere accessibile un’opera a fruitori che parlano un’altra lingua rispetto all’autore: che senso ha infarcirla di termini non tradotti che poi il lettore dovrà andarsi a cercare sul dizionario?
Visto che molti generi che mi piacciono non interessano all’editoria italiana, mi capita spesso di leggere romanzi in inglese, così come leggo regolarmente fumetti in inglese e un tempo guardavo tantissimi film e telefilm in inglese: in tutte queste opere l’uso di un qualsiasi termine in una lingua straniera è così infinitesimale da risultare irrilevante. Quindi sbiascicare termini di altre lingue non è smart, perché invece gli italiani sono convinti di sì?

L.

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Pubblicato da su giugno 3, 2020 in Linguistica

 

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