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Tecnologia libraria 15. L’amarezza di Manzoni

"Alessandro Manzoni" (1835) di Giuseppe Molteni

“Alessandro Manzoni” (1835) di Giuseppe Molteni

Mentre gli autori italiani non vivono certo di scrittura – solo dal 1840 in poi gli editori pagano gli autori, ma sempre e solo per testi commissionati, mai per opere scritte “spontaneamente” – gli autori europei di bestseller si arricchiscono a profusione.

Nel 1830 a Milano si conoscono ben cinque traduzioni complete delle opere del britannico Walter Scott. Mentre gli scrittori italiani su commissione guadagnano quanto un maestro di scuola e meno di un impiegato pubblico, nel 1830 in Francia scoppia la rivoluzione del feuilleton, che fa arricchire tutti: gli editori che incassano cifre inimmaginabili, gli autori (nascono miti come Balzac e Dumas) a cui vengono commissionati testi a peso d’oro e… i ghostwriter, che scrivono a spron battuto quei testi che gli autori blasonati non hanno tempo e voglia di completare.

I soldi sono tanti per tutti: mentre in Inghilterra il giovane Charles Dickens diventa una star, in Francia nel 1862 Victor Hugo propone i suoi Miserabili al miglior offerente, vagliando proposte molto corpose da parte di tutti gli editori del Paese.

Il più grande bestseller del periodo arriva però da un Paese finora esterno al giro dei librai ed editori: dopo essere uscito a puntate su un giornale, nel 1862 l’americana Harriet Beecher Stowe pubblica in volume La capanna dello zio Tom vendendo in un solo anno 100 mila copie. Un successo strepitoso anche per gli standard odierni!
Nel giro di pochissimo tempo il romanzo americano vende un numero spropositato di copie, mentre in Italia Silvio Pellico deve accontentarsi di 30 mila copie (comprese quelle abusive) del suo Le mie prigioni, fra i romanzi più venduti del periodo. Romanzo che paradossalmente in Francia venderà 100 mila copie!

Anche se con cifre più basse, il mercato italiano dei bestseller è lo stesso vivace: Pinocchio di Collodi, Cuore di De Amicis e I Malavoglia di Verga conquistano il Paese e vendono tantissimo, facendo grandi le rispettive case editrici.

Le altissime vendite de I promessi sposi creano però uno strano fenomeno: il proliferare di “copie pirata” che annacquano i guadagni di Alessandro Manzoni, tanto da spingerlo a diventare editore egli stesso di una ristampa riccamente illustrata.
Spese ingenti quantità di denaro e costruita la prima officina silografica italiana, l’impresa finirà nel fallimento: mentre tutti i suoi colleghi europei si arricchiscono, Manzoni non riuscirà neanche a coprire le spese e dovrà impantanarsi in una causa ventennale con la casa Le Monnier: la prima causa italiana per violazione sul diritto d’autore.

Si può capire dunque che Manzoni facesse la parte del nostalgico criticando l’eccessiva popolarità delle edizioni, che spingevano a ristampe illegali che rovinavano i guadagni.

Per approfondire: Accademia della Crusca, L’editoria italiana nell’era digitale (2014)

L.

 
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Pubblicato da su novembre 4, 2015 in TecnoLibri

 

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Tecnologia libraria 14. La furia di Leopardi

"Ritratto di Giacomo Leopardi" (1826) di Luigi Lolli

“Ritratto di Giacomo Leopardi” (1826) di Luigi Lolli

Agli inizi dell’800 la nebulosità legislativa favorisce ristampe illegali e per gli editori guadagnare stabilmente non è facile. Appena trasferitosi a Milano, la nuova capitale del libro, l’editore Antonio Fortunato Stella cerca di ingraziarsi i conti di Recanati pubblicando nel 1816 un testo del loro giovane figlio, un certo Giacomo Leopardi.

Solo nel 1840 nasce la figura dell’“editore capitalista”: basta supplicare e mendicare favori e guadagni da nobili e signorotti locali, ora l’editoria è un’attività commerciale in piena regola.
Il mercato c’è (i bassi prezzi hanno trasformato ampie fasce popolari in lettori) e c’è anche la distribuzione (fondamentale la capillarità delle poste italiane, che permettono anche ai tantissimi paesini sperduti nelle campagne di essere raggiunti dai libri): servono imprenditori capaci di far incontrare gli autori con i lettori.

Malgrado i nostalgici storcano la bocca, questo è il secolo della letteratura popolare: che sia narrativa “alta” o “bassa”, ormai è per i ceti popolari che si pensano le edizioni.

Quando dunque il citato Leopardi si ritrova a dover pubblicare i suoi Canti a proprie spese, perché non ci sono editori interessati, si può comprendere lo spirito con cui pronuncia questa frase: «Oggidì viene a essere peggiore la condizione dei libri perfetti, che dei mediocri».

Per approfondire: Accademia della Crusca, L’editoria italiana nell’era digitale (2014)

L.

 
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Pubblicato da su ottobre 28, 2015 in TecnoLibri

 

Tecnologia libraria 13. Grandi autori, piccolo prezzo

"Il poeta povero" (1839) di Carl Spitzweg

“Il poeta povero” (1839) di Carl Spitzweg

Sicuramente l’Ottocento è il secolo della stampa e dell’editoria, ma si apre con una netta distinzione fra “cultura alta”, che stampa pregiate e costose edizioni ben curate, e “cultura bassa”, che presenta prodotti scadenti a prezzi bassi.

Nel 1814 il tipografo e libraio milanese Giovanni Silvestri lancia un esperimento inedito e destinato a cambiare per sempre l’editoria italiana: la “Biblioteca scelta di opere italiane antiche e moderne”, volumetti di un centinaio di pagine rilegati con una briosa copertina, corretti e ben curati e al prezzo di una sola lira.
Fra alterne vicende la loro pubblicazione procede e addirittura viene ripresa da Giuseppe Pomba e la sua “Biblioteca Popolare” che, nel 1828, fa quello che nessuno ha mai fatto prima (almeno in Italia): presentare i grandi classici di “cultura alta”… a prezzi bassi! Volumetti di 200 pagine a 50 centesimi l’uno.

Il pubblico italiano più umile e popolare scopre la grande letteratura, che gli era stata sempre negata a causa dei costi proibitivi, e nel 1882 Edoardo Sonzogno lancia la sua celebre “Biblioteca Universale” (grandi capolavori della letteratura internazionale al prezzo irrisorio di 25 centesimi a fascicoletto) che porterà in Italia molti grandi autori tradotti per la prima volta.

I nostalgici sin dalla nascita di queste collane hanno territorio fertile per le loro critiche: perché “svendere” le grandi opere ai bifolchi? Così facendo si rovina il mercato: chi spenderà grandi cifre per opere pregiate quando queste vengono vendute a pochi soldi?
Risponde il citato Pomba: «diffondendosi a poco prezzo i libri si diffuse l’amore delle lettere e si moltiplicarono i lettori, e per conseguenza si moltiplicò lo smercio dei libri».

Per approfondire: Accademia della Crusca, L’editoria italiana nell’era digitale (2014)

L.

 
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Pubblicato da su ottobre 21, 2015 in TecnoLibri

 

Tecnologia libraria 12. Donne lettrici

"La Marchesa de Pompadour" (1756) di François Boucher

“La Marchesa de Pompadour” (1756) di François Boucher

Inizia il Settecento e si assiste ad una nuova rinascita del libro: accanto ad iniziative rivoluzionarie come l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert – venduta molto più all’estero che in patria francese – e ad altri libri costosi e pregiati, si afferma il mercato dei libri a basso costo: i “libri blu”, così chiamati perché le copertine erano fatte con la carta da zucchero.

Per la prima volta nella storia i libri sono letti anche da un tipo davvero particolare di persone: le donne!
Il successo del format “romanzo” è indiscutibile e in tutta Europa poeti e filosofi capiscono ben presto che per guadagnare bisogna anche scrivere narrativa: Jean-Jacques Rousseau scrive Nouvelle Héloïse e Goethe scrive I dolori del giovane Werther. Il successo è travolgente in tutta Europa: che sia vero o meno, nasce la leggenda di folle di giovani che si suicidano seguendo l’esempio del Werther di Goethe, tanto è piaciuto il suo romanzo.

I nostalgici hanno pane per i loro denti: tutti questi lettori sono davvero in grado di capire quanto leggono? Questa moda del leggere, non è in fondo solo un capriccio passeggero che rovina il pregio del mondo letterario? Non parliamo poi dei romanzi, che non sono altro che storielle per servette…
Così il poeta Giambattista Roberti nel 1770 può lamentarsi: «oggimai i cattivi libri da ogni banda inondano le nostre italiane contrade».

Per approfondire: Accademia della Crusca, L’editoria italiana nell’era digitale (2014)

L.

 
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Pubblicato da su ottobre 14, 2015 in TecnoLibri

 

Tecnologia libraria 11. Nasce il romanzo

bertoldoIl Seicento tipografico inizia con abbondanza di divieti e proibizioni, che rendono pericolosa la libera espressione in Italia, e la Guerra dei Trent’anni (1618-1648) ha bloccato l’afflusso dei tipografi italiani alle fiere europee: nel 1650 il mercato dei libri è in mano ad olandesi e tedeschi.

Intanto in Spagna nasce quello che noi chiamiamo “romanzo”, ad opera di Miguel de Cervantes e del suo Don Chisciotte: l’innovazione conquista in breve tempo l’Europa e le tipografie italiane iniziano sin da subito a sfornare romanzi in edizioni economiche.
Fra i pochi che hanno lasciato traccia, va citato il celebre Le sottilissime astuzie di Bertoldo del bolognese Giulio Cesare Croce.

Malgrado il mercato librario sia in crisi, nascono libri a non finire e così i nostalgici cominciano a lamentarsi. Il celebre filosofo tedesco Leibniz, tra l’altro curatore di biblioteche di corte in Germania, dice di essere terrorizzato dalla massa di libri che sta invadendo le biblioteche e propone che una legge impedisca la pubblicazione di testi che non abbiano qualcosa di nuovo da offrire ai lettori.

Per approfondire: Accademia della Crusca, L’editoria italiana nell’era digitale (2014)

L.

 
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Pubblicato da su ottobre 7, 2015 in TecnoLibri

 

Tecnologia libraria 10. Ritorno al lusso

"Ritratto di Ugolino Martelli" (1540) del Bronzino

“Ritratto di Ugolino Martelli” (1540) del Bronzino

Il Cinquecento rappresenta l’esplosione della tipografia, ma anche il momento in cui appare chiaro un dislivello che noi negli anni Duemila conosciamo molto bene: ci sono molti più scrittori ed editori… che lettori!

Le alte vendite dei testi religiosi vengono smorzate dalla nascita nel 1558 dell’Indice dei libri proibiti (Index librorum prohibitorum), forma di regolamentazione che diventa subito di censura: vistisi bruciare centinaia se non migliaia di volumi, i tipografi ora ci pensano due volte prima di imbarcarsi nell’impresa di un testo che non sia più che sicuro di vendere senza problemi con le istituzioni.

Il Seicento si apre dunque con un ritorno all’immagine di lusso, più semplice, più costosa e che quindi garantisce incassi migliori e più facili.
L’errore di rivolgersi ad un grande pubblico viene corretto e ora si producono libri di lusso per una élite ristretta ma facoltosa, ben disposta a pagare un prezzo più alto anche perché ora i volumi sono impreziositi da costose illustrazioni, eseguite con tecniche note da tempo ma che si preferiva evitare per evidenti motivi di costi: ora che si può alzare il prezzo, si chiamano i migliori illustratori e incisori per migliorare costantemente la “grafica” dei libri, al di là del loro contenuto.

Mentre i titoli sul frontespizio aumentano in lunghezza, nasce un’arte fino ad ora sconosciuta: saper condensare l’intero contenuto del libro in una illustrazione da apporre nelle prime pagine. Si chiama “antiporta” ma è pronta a diventare quella che in seguito si chiamerà “copertina illustrata”.

Per approfondire: Accademia della Crusca, L’editoria italiana nell’era digitale (2014)

L.

 
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Pubblicato da su settembre 30, 2015 in TecnoLibri

 

Tecnologia libraria 9: Made in Italy

"La Vergine che legge" (1505) di Carpaccio

“La Vergine che legge” (1505) di Carpaccio

Il Cinquecento è il trionfo del Rinascimento e dell’Italia: i libri che girano per l’Europa sono creati sul modello italiano.
Si leggono facilmente anche senza gli occhiali, c’è il corsivo (inventato da Francesco Griffo su commissione di Aldo Manuzio) e in generale le fonti utilizzate per la stampa permettono una lettura migliore e più scorrevole rispetto ai manoscritti, oltre ad un prezzo infinitamente più basso.

Dalle tipografia i libri escono a fascicoletti che conservano la prima pagina bianca perché, durante il trasporto, è facile che si macchi o si sporchi: gli italiani approfittano di quello spazio bianco per riassumere le informazioni principali dell’opera contenuta.
Nasce il frontespizio, ed ora non c’è bisogno di aprire e sfogliare il volume per sapere cosa contenga.

Non bastasse tutto questo, sempre dall’Italia arriva un’altra invenzione destinata a cambiare il mondo. Il 15 aprile 1501 il celebre stampatore Aldo Manuzio dà il via alla produzione di libretti di otto pagine con la prima parte di un testo di Virgilio: nasce la pubblicazione a puntate.
Il Canzoniere del Petrarca e la Commedia di Dante seguono a ruota e in pochissimo tempo l’Italia è invasa di libretti da leggere comodamente a casa: la lettura non è più un’attività da svolgersi prettamente in biblioteca, ma diventa “privata”.

I nostalgici però considerano “vera” lettura quella sui classici (stampati o manoscritti) in biblioteca, mentre “falsa” quella fatta a casa sui libretti a puntate, sebbene il contenuto sia identico.
Per esempio Pietro Aretino chiama “Petrarchetto” l’edizione petrarchesca uscita a puntate, come se fosse inferiore a quella manoscritta o stampata in volume.

Essendo ormai il libro una merce, non basta stampare: bisogna fare del marketing. Nel 1540 Gabriele de’ Ferrari, appartenente ad una illustre famiglia di stampatori, rilancia l’attività di famiglia e diventa uno dei maggiori editori dell’epoca con un’invenzione per attirare i lettori: quello che oggi chiamiamo “collana”.
Vendere di nuovo titoli già venduti solo perché ora fanno parte di una collana… se non è marketing questo!

Per approfondire: Accademia della Crusca, L’editoria italiana nell’era digitale (2014)

L.

 
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Pubblicato da su settembre 23, 2015 in Note, TecnoLibri

 

Tecnologia libraria 8. Bibliomania

bibliomaneLa “moda” del libro stampato infiamma tutta l’Europa di fine Quattrocento ed accade qualcosa che, per noi “moderni”, sembra del tutto illogico: perde valore il manoscritto (che è un pezzo unico quindi “da collezione” in ogni suo esemplare) e tutti vogliono i libri stampati, cioè creati in serie e quindi di minor valore.

Il forte abbassamento del prezzo permette un fenomeno che nell’antichità era quasi sconosciuto (se non in pochi casi particolari): la creazione di biblioteche private.
Non più luoghi istituzionali che mettevano i costosissimi manoscritti a disposizione degli studiosi, non più le collezioni private che solo le ricche famiglie europee ostentavano, bensì una biblioteca personale che anche i meno ricchi possono crearsi.

Ovviamente si tratta sempre di costi proibitivi per la gente comune, ma di sicuro si comincia ad imporre la figura di uno strano personaggio: il bibliomane, il collezionista maniaco di libri.

Negli ultimi anni del Quattrocento l’autore satirico Sebastian Brant fa in tempo a vestire i panni del nostalgico e a lamentarsi della devianza che ha portato alla nascita dei bibliomani, di personaggi cioè che compiono un atto per l’epoca inconcepibile: raccolgono più opere di più autori

Per approfondire, Libri, scrittura e pubblico nel Rinascimento. Guida storica e critica, a cura di Armando Petrucci, Laterza 1979

L.

 
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Pubblicato da su settembre 16, 2015 in Note, TecnoLibri

 

Tecnologia libraria 7. La vergogna della stampa

Johann Fust

Johann Fust

Nel 1466 Leon Battista Alberti racconta che per fare duecento copie di un libro ci vogliono tre uomini per cento giorni, mentre per le stesse copie Vespasiano da Bisanzio aveva bisogno di 45 amanuensi per 600 giorni.

Questo epocale cambiamento è dovuto all’imprenditore Johann Fust che è fuggito dalla guerra civile di Magonza e ha portato nell’Italia del Nord la grande invenzione che possiede: la tipografia, cioè il modo di stampare usando tipi (caratteri mobili) fusi in lega di metallo.
È un sistema inventato da Johannes Gutenberg, che dopo tre anni rompe l’accordo con il finanziatore Fust trovandosi costretto a lasciargli la sua apparecchiatura. Fust trova nella bibliofila Italia un terreno più che fertile, piena com’è di facoltosi collezionisti, ricche biblioteche comunali ed ecclesiastici ben disposti ad accogliere un sistema veloce ed economico di comunicazione.

Johannes Gutenberg

Johannes Gutenberg

Nella seconda metà del Quattrocento, grazie al fenomenale quanto misterioso lavoro dei cacciatori di libri – che racconto nel mio saggio Alla conquista del Monte Athos – l’Italia ha riscoperto un grande patrimonio letterario dimenticato da secoli, che ora grazie all’economica tipografia può tornare ad essere pubblico: le opere di Dante e di Cicerone aprono la strada, ma sono subito raggiunti.
Se Ad Familiares di Cicerone raggiunge le 50 edizioni in sei anni, il Confessionale di Antonino Pierozzi, vescovo di Firenze morto nel 1459, tocca le centocinquanta: un vero e proprio bestseller.

L’entusiasmo degli stampatori non sempre corrisponde ad un reale successo di vendite e ben presto si deve imparare a fare bene i calcoli tra copie stampate e vendibilità dei titoli: insomma, sul finire del Quattrocento il libro non sono più un lusso per pochi illuminati, bensì una vera e propria “merce”.

Regolare arriva il rifiuto di questa nuova vergognosa tecnologia: ma volete mettere il lusso di un manoscritto miniato con una volgare edizione a stampa? Vespasiano da Bisticci assicura che fra i libri del duca di Urbino non ce n’era neanche uno a stampa, «ché se ne sarebbe vergognato».

Per approfondire: Accademia della Crusca, L’editoria italiana nell’era digitale (2014)

L.

 
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Pubblicato da su settembre 9, 2015 in TecnoLibri

 

Tecnologia libraria 6. Arriva la carta

federicoIIVuole la leggenda che sul finire del XII secolo un certo Heraldo fuggì da Praga portando con sé il segreto della fabbricazione della carta, andando a rifugiarsi in un paesino sul fiume Reno presso Bologna dove rivelò quel segreto a un certo Polese: in quel paesino, Fabriano, nacque la prima cartiera dell’Italia cristiana.
Va specificato “cristiana” perché nell’Italia del sud, a dominazione araba, quel materiale di scrittura era già ben noto: il primo documento cartaceo a noi noto, mi insegna il sito ItaliaMedievale.org, è un mandato della contessa Adelaide di Sicilia risalente al 1109.

Pare risalga al 105 d.C. l’invenzione della carta da parte dei cinesi, creata con un sistema relativamente semplice: si prendevano diversi vegetali (paglia di tè o di riso, canna di bambù e stracci di canapa), si lasciavano marcire e poi li si batteva fino ad ottenere la pasta da cui venivano ricavati i fogli.
Questo sistema contagiò l’Asia e venne adottato dagli arabi, che però cambiarono alcuni elementi e resero molto più deteriorabile il supporto.

Che sia arrivata nel nostro Paese attraverso gli arabi da sud, o ce l’abbia portata il fantomatico Heraldo dal nord, sta di fatto che nella seconda metà del Duecento Fabriano produce la migliore carta disponibile a livello mondiale, avendone perfezionato la lavorazione: per i successivi duecento anni la carta prodotta in Italia sarà la migliore in assoluto.
L’entrata del nuovo formato nella vita quotidiana permise ai pittori di avere un supporto economico dove fare schizzi: insieme alla carta nacque dunque l’uso della matita e la tecnica del “bozzetto”.

In tutto questo la parte del “nostalgico”, anche se a ragione, tocca a Federico II di Svevia. Nel 1231 infatti il sovrano proibisce l’uso della carta (εν χαρτίοις, en khartìois) per i documenti ufficiali, che dovranno sempre essere scritti solo su pergamena (εν μεμβράναις, en mebrànais).
Non dobbiamo essere ingiusti con Federico II, la sua non era nostalgia per “l’odore della pergamena”, non era resistenza al nuovo formato: semplicemente la versione araba della carta che si usava all’epoca era drammaticamente deteriorabile e quindi ogni documento redatto con quel formato era destinato a rovinarsi in tempi strettissimi, al contrario della pergamena che invece offriva una lunghissima durata.

L.

 
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Pubblicato da su settembre 2, 2015 in Note, TecnoLibri