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Intervista western a Mariangela Cerrino

26 Giu

Nel novembre 2015 ho avuto il piacere di conoscere in digitale Mariangela Cerrino, nota e prolifica autrice italiana che fino a quel momento avevo incontrato solo come nome sulle copertine e nelle mie ricerche sulla narrativa italiana di genere.
Visto che avevo appena scoperto come l’autrice agli inizi della sua carriera avesse firmato sotto pseudonimo alcuni romanzi western, subito pensai di farle una proposta: una “intervista western” da rigirare poi al blogger che in quel momento rappresentava il mio Faro in quel genere. “Kentucky mon amour” è stato un grande blog così come Ivano Satos è stata una persona eccezionale: purtroppo un triste giorno è scomparso nel nulla. I suoi blog sono scomparsi, messi “in privato”, e non ha più risposto alle mie mail. Non so cosa gli sia successo: magari è tornato ad immergersi nella natura boschiva che tanto amava e ha incontrato un Wendigo, essere a cui ha dedicato uno splendido saggio che sono riuscito a conservare dall’oblio.

Scomparendo il blog di Ivano, è scomparsa anche quella intervista che avevo curato in esclusiva, finché non mi sono ricordato di aver conservato le mail. Visto che Cassidy mi ha stuzzicato, passandomi una chicca western, mi sembra il momento giusto di rispolverare l’intervista ad un’autrice storica del genere in Italia.


Raccontare oggi di una ragazza men che diciottenne che inizia a scrivere romanzi western per una grande casa editrice… è davvero incredibile, eppure è così che è andata nel tuo caso. Come ti è venuto in mente di esordire proprio in questo genere?

La passione per il western certamente è nata in ambito famigliare. Mio padre era un appassionato e aveva tutta la raccolta dei mitici Sonzogno con la “copertina rossa”, che gli amanti del genere non possono non conoscere. Ho cominciato a leggerli quando non avevo più di otto anni. Sono stata una lettrice molto precoce. Quando ho scritto Blue River, il mio primo romanzo, di anni ne avevo soltanto quattordici. Ma frequentavo il Centro Studi Americani a Torino, che aveva una biblioteca stupenda, e dove ho potuto studiare la storia e tutto quanto mi occorreva per l’ambientazione.

Così dopo aver rivisto e riletto il romanzo per un anno, a sedici, con l’entusiasmo dell’età, l’ho spedito alla “Direzione Editoriale” della Sonzogno, che iniziava proprio in quel periodo la sua serie tascabile “I Nuovi Sonzogno”, con le copertine di Crepax.

Non avevo, ovviamente, nemmeno un nome a cui indirizzarlo… ma è piaciuto, e mi hanno risposto dopo poco più di un mese accettandolo. Comunque, ho fatto tutto da sola… la stesura, la revisione, la ricerca dell’editore, la scelta dello pseudonimo. Come ho più volte dichiarato, era un vero omaggio a Zane Grey, che consideravo il mio Maestro. Ma poi, come è giusto, ho lasciato le sue orme e già nel secondo romanzo, L’ultimo cielo, c’era soltanto May I. Cherry.

Cosa voleva dire per una donna, negli anni Sessanta e Settanta, scrivere romanzi di un genere considerato fortemente maschile?

I miei lettori mi credevano americana. Quindi ero ammessa, per l’esterofilia dominante di quegli anni. Non ho mai incontrato ostacoli.

Per circa dieci anni hai scritto come May I. Cherry per la collana “I Nuovi Sonzogno”: lo raccontavi in giro, che eri tu l’autrice? E se sì, cosa ti rispondevano?

No, non lo dicevo. Il primo a saperlo è stato Gianfranco Viviani, fondatore della mitica Casa Editrice Nord, nel momento in cui mi sono dedicata anche alla fantascienza, all’inizio degli anni Ottanta.

Negli anni Ottanta cominci a scrivere per “I Grandi Western” de La Frontiera, sempre come Cherry ma nascondendoti nella traduzione (come Maria Cerrino). È stato un passaggio fluido o ci sono state differenze rispetto all’epoca Sonzogno?

È stato un passaggio senza alcun problema. La Sonzogno era entrata a far parte del gruppo RCS, chiudendo le collane esistenti, quindi il passaggio è stato inevitabile. Giorgio Cordone e i suoi collaboratori Tiziano Agnelli e Alessandro Zabini mi hanno fatto subito sentire “a casa”. E sono tuttora dei cari amici.

Erano anni in cui il western era molto seguito in Italia, tra film, libri e fumetti. C’era qualche autore o personaggio, italiano o straniero, che ti piace ricordare anche a distanza di tempo?

Un film su tutti: Un dollaro d’onore (1959), con il mitico John Wayne e Dean Martin. Un film perfetto in ogni suo attimo (anche nella colonna sonora).

Dalla fine degli anni ’80 hai cambiato generi letterari: ti è mai venuto voglia di scrivere un altro western?

Qualche volta. Il West offre una tavolozza grandiosa per ogni tipo di romanzo. Ma ciò che questo tipo di narrazione dovrebbe riconquistare, a mio avviso, è la speranza. Quella di un Mondo Nuovo, di Nuove Terre e nuove possibilità, sempre nascoste dall’ultima collina da superare e mai negate a nessuno. E non pensare che oltre a quell’ultima collina c’è soltanto il deserto. La speranza era il segreto del West.

Detto questo, non si può dimenticare che anche la fantascienza (o almeno un suo genere) offre le stesse tematiche. In fondo quello che conta davvero è l’uomo, e la sua voglia di andare oltre.

A quale dei tuoi personaggi western sei rimasta più legata?

Il mio personaggio preferito è indubbiamente Elijah McGowen. Gli ho dedicato ben quattro romanzi! So che non a tutti i miei lettori risultava simpatico, ma io l’avevo costruito con tutti i suoi difetti e le sue qualità perché doveva essere reale, ed era davvero tale per me. E poi non apparteneva a nessuno, era al di fuori della società: nessuno poteva imporgli qualcosa. Per me, a quel tempo tanto ricco di ideali, era la condizione perfetta di libertà.


Oggi dell’autrice sono disponibili in digitale suoi romanzi di altri generi:

L.

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Pubblicato da su giugno 26, 2019 in Interviste

 

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