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La lingua di tutti voi zombie

20 Mar

Un uomo entra in un bar… e non rimase più nessuno.

Non è una barzelletta, visto poi che non avrebbe senso, bensì la mia brevissima recensione di uno dei più incredibili, sorprendenti, spiazzanti e oscuri racconti di fantascienza di sempre, che qui però vorrei analizzare dal punto di vista lessicale.
“Un uomo entra in un bar” è un classico incipit di barzelletta, almeno in Italia, “E non rimase più nessuno” è il primo titolo italiano del romanzo Ten Little Niggers di Agatha Christie: “negri” era davvero un termine impegnativo da rendere in italiano, così si preferì cambiare totalmente titolo, in seguito optando per Dieci piccoli indiani. Perché ho fuso due frasi così diverse? Per sottolineare la deliziosa e irresistibile qualità lessicale del racconto “All You Zombies…” di Robert A. Heinlein.

Ha 52 anni il celeberrimo scrittore quando la rivista “Fantasy & Science Fiction” (volume 16, n. 3, marzo 1959) pubblica il racconto in questione ad apertura del volume: undici pagine secche, essenziali, sparate, con una chiusura potente che non mi spiego come sia possibile non sia entrata nella storia della fantascienza: perché insieme alle frasi ad effetto di Fredric Brown non ho mai trovato citato anche quelle di questo racconto? Chiusa parentesi.

La storia inizia il 7 novembre 1970 ed è quindi subito chiaro che si parla di viaggi nel tempo, visto che la rivista esce nel 1959. Ma i vari giochi temporali in cui saremo coinvolti sono nulla con quelli di genere: il protagonista parla con un uomo che chiama Unmarried Mother, semplicemente perché è uno scrittore di quelle confession stories che in Italia sono note come “confessioni vere”: frase che indica perfettamente l’altissimo livello di falsità di dette confessioni. (Così come “tratto da una storia vera” indica sempre una storia di pura finzione.)
Il ragazzo venticinquenne scrive per soldi queste “confessioni vere” per un editore e si firma sempre “madre nubile” (oggi diremmo madre single, perché siamo itanglesi) da qui la scelta di chiamarlo Unmarried Mother per tutta la storia. Però è un uomo, perché quindi a volte lo indica con un pronome femminile? Semplicemente perché lui stesso, raccontando la storia della sua vita, confessa di essere stato donna fino all’adolescenza, quando poi i dottori hanno scoperto che i suoi organi sessuali erano un totale disastro e hanno dovuto trasformarlo in uomo.

Prima dell’operazione, Unmarried Mother voleva entrare in un corpo speciale di donne il cui compito era far rilassare gli astronauti. Avete già immaginato il nome volgare di questa professione del futuro – che ha radici ben salde nel passato – ma l’autore tocca il genio: sfruttando la ben nota passione americana per le sigle e gli acronimi, chiama il corpo Women’s Emergency National Corps, Hospitality & Entertainment Section. In sigla, W.E.N.C.H.E.S. Prima però, nota l’io narrante, avevano un nome meno ispirato: Women’s Hospitality Order Refortifying & Encouraging Spacemen. Heinlein non cita l’acronimo, ma è facile: W.H.O.R.E.S.

Vocabulary shift is the worst hurdle in time-jumps.

Quando viaggiate nel tempo, come l’io narrante della storia, il problema principale è il vocabolario: le parole e le espressioni cambiano a seconda dell’anno in cui vi trovate. Facciamo per esempio un viaggio nel tempo ed andiamo avanti al settembre 1965 quando lo storico Ugo Malaguti traduce in italiano questo racconto per l’antologia “Fantascienza della crudeltà” (Lerici Editori). Poi facciamo un piccolo saltino al 1967, quando Leo Rossi lo ritraduce per l’antologia “Fantasesso” (Feltrinelli) e infine facciamo un lungo salto temporale fino al gennaio 2003, e incontriamo un altro nome storico come Vittorio Curtoni che ritraduce il racconto per l’antologia “Anonima stregoni” (Urania Mondadori n. 1456): come hanno reso i giochi di parole fin qui citati?

Per Malaguti W.E.N.C.H.E.S. diventa «P.U.T.T.A.N.E. (Perché gli Uomini Tristi Trovino Amore nel Nulla Esterno)»; Rossi è molto più ardito e a sorpresa preferisce «S.O.R.C.A. (Servizio Organizzativo Ricreazione Conforto Astronauti)», mentre Curtoni opta per «T.R.O.I.E. (Truppe Relax, Ospitalità e Intrattenimento Esercito)».

E W.H.O.R.E.S.? Per Malaguti è «T.R.O.I.E. (Trattenimenti Ristoratori Offerti In Esclusiva)», per Rossi è «Super Centro Operativo Promozionale Assistenza Trattamento Ristoro Intimo Campioni Interspaziali.» (cioè S.C.O.P.A.T.R.I.C.I.) e infine per Curtoni è “Prodi Unità di Trastullo e Trattamento Amoroso per i Nostri Eroi” (cioè P.U.T.T.A.N.E.).

«Gli slittamenti nel vocabolario sono il peggior fardello dei balzi temporali.»

Parola di Curtoni. E per rimanere saldo nei propri propositi l’io narrante ci recita le By-Laws of Time che ha appese sul proprio letto, rese “Regole del Tempo” da Malaguti, “Le leggi supplementari del tempo” da Rossi e “Leggi del tempo” da Curtoni:

Never Do Yesterday What Should Be Done Tomorrow
Mai fare ieri quello che va fatto domani

Non sembrano regole che aiutino a capire, solo la quarta regole ci viene incontro:

A Paradox May Be Paradoctored

Trovo assolutamente delizioso il gioco di parole, che si basa sull’usanza anglofona di badare alla somiglianza delle parole invece che al loro significato. Così il greco para-doxa (“contro le opinioni”, cioè qualcosa di non immediatamente comprensibile mediante il semplice buon senso) assomiglia ad un termine molto in voga quando scrive Heinlein, paradoctor, che indicava un medico militare che operava nella zona dell’azione. Sappiamo che il protagonista ed io narrante del racconto è un militare operativo, un Temporal Agent, e in fondo ricopre le mansioni di un paradoctor: agisce nella zona dell’azione, cioè viaggia nel tempo per “sistemare” i paradossi. Esiste un verbo italiano per indicare questa attività?

Un Paradosso può essere Rimediato (Malaguti)
Un paradosso può essere paradossato (Rossi)
Un paradosso può essere deparadossato (Curtoni)

No, non esiste, e queste traduzioni non rendono l’idea di ciò che fa il protagonista…

Per chi non avesse ancora letto il racconto sono moralmente costretto a specificare ALLARME SPOILER, anche per trattare l’ultimo (ma per me più importante) gioco lessicale. Il titolo del racconto.

Parola dopo parola, l’io narrante ci spiega come è tornato indietro nel tempo per compiere azioni che ci portano ad un sospetto, confermato dall’ossessiva presenza della canzone I’m My Own Granpaw!, un brano umoristico paradossale che racconta di un giovane sposato ad una vedova la cui figlia (figliastra di chi canta) si sposa poi con suo padre: «Questo rende mio padre mio genero, ed ora mia figlia è mia madre perché è la moglie di mio padre.»
La canzone del 1947 è ovviamente forte ispirazione del racconto stesso, in cui però il protagonista va ben oltre: lui non è “il nonno di se stesso”, lui è… tutti.

La Ragazza Madre che divenne uomo, sua figlia, chi l’ha messa incinta, chi l’ha abbandonata alla nascita, genitori, parenti, amici, conoscenti… tutti sono sempre lo stesso io narrante, che facendo su e giù nel tempo, amando e partorendo se stesso, in pratica crea un universo di se stessi. E qui scatta la frase da storia della fantascienza:

I know where I came from… but where did all you zombies come from?

Qui nasce un problema che credo non si sia posto il lettore medio, che dal 1978 considera “zombie” parte del proprio dizionario. Perché nel 1959 Heinlein usa quella parola? Che c’entrano i “morti viventi”? Il protagonista si sta riferendo a tutti i propri se stesso di cui ormai l’universo è pieno, e a cui in fondo è affezionato tanto da non prendere le pasticche per il suo mal di testa. («Le ho prese una volta, e siete spariti tutti.»)

Mi sembra ovvio che il termine zombies di Heinlein si riferisca al significato che il termine ancora all’epoca conservava: quello che aveva in Europa sin dal Settecento, cioè “fantasmi”. (Per saperne di più, vi rimando alla mia “indagine” Tutta colpa di uno zombie.)

Io lo so, da dove vengo… Ma tutti voi, fantasmi, da dove venite? (Malaguti)

Io so da dove venivo; ma da dove venivate voi, tutti voi? (Rossi)

Io so da dove vengo… ma da dove venite tutti voi zombie? (Curtoni)

L’unico ad aver capito la sfumatura è Malaguti, mentre Rossi rimuove il problema e Curtoni si limita a ricopiare, e infatti ecco come i tre italiani traducono il titolo All You Zombies…

Tutti i miei fantasmi (Malaguti)

O tempora, o sexus! (Rossi)

Tutti voi zombie (Curtoni)

Solo Malaguti ha capito il gioco che porta alla tremenda frase finale del racconto:

You aren’t really there at all. There isn’t anybody but me, here alone in the dark.
I miss you dreadfully!

Qui non c’è nessuno, nessuno all’infuori di me… io, Jane… così sola al buio.
Sento terribilmente la vostra mancanza!
(Malaguti)

Non ci siete affatto. Non c’è nessuno all’infuori di me — Jane — qui sola nel buio.
Mi mancate terribilmente!
(Rossi)

Voi non esistete. Per niente. Qui sola al buio ci sono soltanto io.
Quanto mi mancate.
(Curtoni)

Io so da dove vengo… ma da dove venite tutti voi zombie?

Questo racconto – da cui un film confusionario ma intrigante, che vi racconto qui – ci racconta di quando zombie voleva dire ancora fantasma, perché solo dal 1978 del secondo film di George A. Romero esplode l’accezione “morto vivente”, almeno in Italia. In lingua inglese il termine conoscerà avventure ignote agli italiani…come vedremo in seguito.

L.

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16 commenti

Pubblicato da su marzo 20, 2019 in Linguistica, Recensioni

 

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16 risposte a “La lingua di tutti voi zombie

  1. Claudio Capriolo

    marzo 20, 2019 at 8:29 am

    …e dopo Romero gli americani hanno scoperto di essere ossessionati dagli zombie, nell’accezione di morti-viventi più o meno affamati di carne umana: ormai li si ritrova in qualsiasi cosa provenga dagli States 🙂

    A proposito di lingua, conosci il racconto Shall We Have a Little Talk? di Robert Sheckley? Tradotto in italiano, se non ricordo male, con il titolo Mun-mun. Lo trovo geniale. Del resto, Sheckley per me è uno dei massimi autori di fantascienza, lo preferisco anche a Asimov.

    Ti rivelerò un piccolissimo segreto. Quando ero redattore del Dizionario di musica della Utet mi divertiva molto l’idea di inserirvi una voce “falsa”, cioè inventata, riferita a un qualcosa di inesistente e fantasioso, ma allo stesso tempo “vera” in quanto, per esempio, citata in un’opera letteraria. Dopo aver ramazzato via dubbi e scrupoli, alla fine scrissi questa:

    Stomach horn (letteralmente «corno da stomaco»). Strumento jazzistico di fattura sconosciuta, menzionato da R. Sheckley in Mindswap (1966).

    Si trova a pagina 416 nel IV volume della 1a sezione (Il Lessico) de DEUMM 😀

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    • Lucius Etruscus

      marzo 20, 2019 at 8:37 am

      Ah, questi giochi li adoro e in fondo è lo stesso gioco degli pseudobiblia degli anni Trenta: si citavano sì libri inesistenti, ma erano tutti presenti nelle opere di altri scrittori.

      Anni fa mi sono divertito a raccogliere poesie inesistenti ma semplicemente date come vere nei romanzi, e dall’inizio dell’anno sto raccogliendo citazioni per un “Dizionario delle Bevande Fantastiche”, raccogliendo i drink inesistenti ma citati in opere di finzione ^_^

      Mi sono dimenticato di linkare la mia “storia della parola Zombie“, che dimostra come sia nota in Europa sin dal Settecento ma ha assunto i significati più disparati.

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    • Lucius Etruscus

      marzo 20, 2019 at 8:53 am

      P.S.
      L’ho conosciuto tardi e non ho letto tantissimo di suo, ma non ho problemi a considerare Sheckley un grandissimo della fantascienza!
      Sai che è uno dei pochi ad aver scritto uno splendido romanzo di Alien? Peraltro l’unico mai pubblicato da Urania: non è una storia sua – è la novelization di un fumetto – ma l’ha trasformato in oro! 😉

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  2. zoon

    marzo 20, 2019 at 8:59 am

    Le parole sono importanti. Davvero…

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  3. Kuku

    marzo 20, 2019 at 9:08 am

    Oh che bel post, queste disquisizioni trad-lessicali mi piacciono assai e in più abbiamo l’elemento temporale. Gli acrostici mi ricordano certe storie delle Giovani Marmotte che a volte ne proponevano di assurdi, comunque alcuni di queli proposti non sono male. Quella degli uomini tristi è epica. Le traduzioni di Rossi mi sembrano un po’ strane(“o tempora, o sexus”, poi…). il meglio sembra Malaguti. Ma quel Jane alla fine, da dove lo hanno pescato?
    Uno zombie in effetti potrebbe essere una sorta di fantasma di quel che era.

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    • Lucius Etruscus

      marzo 20, 2019 at 9:15 am

      Ah, mi è scappato un Jane: volevo ometterlo, perché avrebbe distratto l’attenzione. Comunque se hai letto lo spoiler posso anche rivelartelo: è la protagonista ed io narrante del racconto… nonché unica essere vivente autoreplicatasi in un mondo di “fantasmi” 😛

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      • Kuku

        marzo 20, 2019 at 9:17 am

        Ah, non capivo perché venisse fuori in due traduzioni su tre e nell’originale non ci fosse. Visto che a volte I traduttori ne inventano di cose…

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  4. Cassidy

    marzo 20, 2019 at 9:32 am

    Penso che “Truppe Relax, Ospitalità e Intrattenimento Esercito” sia imbattibile, gli acronimi seri, sono sempre fonte di umorismo, ma questa trovata è davvero brillante, bellissimo post grazie! 😉 Cheers

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  5. zoppaz (antonio zoppetti)

    marzo 20, 2019 at 10:53 am

    aspetto il seguito! 🙂

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  6. theobsidianmirror

    marzo 20, 2019 at 6:38 PM

    Parlando di Malaguti molti tagliano corto dicendo che è solo un tizio dall’ego smisurato. Probabilmente è vero, ma resta il fatto che è anche un dannatissimo genio.

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    • Lucius Etruscus

      marzo 20, 2019 at 6:44 PM

      Non so dal punto di vista personale, ma professionalmente il suo lavoro nella fantascienza è di quelli grossi. Le sue collane della Libra ci hanno regalato grandi titoli 😉

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