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Fembot: il primo nome della donna robot

24 Gen

1976: la prima apparizione di una fembot

Prima del 1984, con l’invenzione della parola gynoid (di cui parlerò in un altro post), non è noto alcun tentativo di dare un nome alle donne artificiali. Chissà se qualche antropologo ha mai studiato il disprezzo e l’odio maschile per le donne meccaniche che lui stesso costruisce, fino a giungere all’estremo insulto di negare loro un nome.
L’unico tentativo prima di quella data sembra essere stato un obbrobrio lessicale del 1976: fembot, possibile (ma non dichiarata) contrazione di female robot.

La donna bionica
contro la donna meccanica

Negli anni Settanta i palinsesti televisivi statunitensi sono dominati dalla fortunata serie “L’uomo da sei milioni di dollari” e dalla “compagna”, la serie spin offLa donna bionica“, Nel 1976 i rispettivi protagonisti (Steve Austin e Jaime Sommers) uniscono le proprie forze bioniche per una storia in tre puntate divise tra le due serie: “Uccidete Oscar” (Kill Oscar), “La donna bionica” episodi 2×05 (27 ottobre 1976) e 2×06 finale (3 novembre 1976) soggetto di Arthur Rowe e Oliver Crawford, teleplay di William T. Zacha, con un intermezzo ne “L’uomo da sei milioni di dollari” 4×06 (31 ottobre 1976).

Uno scienziato pazzo sembra rifarsi (senza ovviamente dichiararlo) al buffo Dr. Goldfoot delle commedie italo-americane degli anni Sessanta e decide di costruire delle donne avvenenti per scopi spionistico-criminali:

«Io le chiamo fembot».

Il dottor Franklin (John Houseman) con la sua invenzione: la fembot

Così nella prima puntata il dottor Franklin (interpretato da John Houseman) spiega la sua creazione al committente, il barone Constantine (Jack Colvin).

«Sono donne assolutamente perfette. Sono programmabili, belle, soprattutto obbedienti: ma anche micidiali, a seconda della mia volontà.»

In realtà a Franklin era stata commissionata una macchina per il controllo del tempo atmosferico, ma lo scienziato ha un piano infallibile: sostituirà le segretarie dei potenti del Servizio Segreto con le sue fembot e così potrà avere accesso a tutte le fenomenali risorse a loro disposizione. La donna bionica Jaime Sommers (Lindsay Wagner) rimarrà ferita dallo scontro con le due fembot segretarie, così interviene l’uomo da sei milioni di dollari in persona Steve Austin (Lee Majors), che scopre la base da cui opera il dottor Franklin ed interviene. Gabbato anche lui dallo scienziato, nella terza ed ultima puntata Jaime e Steve dovranno unire le loro forze per raggiungere l’isola di Franklin per fermare i suoi piani malefici.

Da sinistra: una fembot, l’uomo da sei milioni di dollari Steve Austin (Lee Majors)
e la donna bionica Jaime Sommers (Lindsay Wagner)

La storia ha un seguito nel doppio episodio “Una notte a Las Vegas” (Fembots in Las Vegas, 3×03-04, 24 settembre e 1° ottobre 1977). Il dottor Franklin è ormai morto in carcere eppure la fembot Peggy Callahan (sempre interpretata da Jennifer Darling) torna in funzione negli archivi dell’Agenzia dove era in deposito: a guidarla è il figlio del dottor Fraklin, Carl (interpretato da Michael Burns). Questi vuole vendicare il padre e si impadronisce di un’arma potentissima: per non usarla, vuole che si consegnino spontaneamente i responsabili della morte paterna.

Le fembot del Dottor Male

Questo curioso neologismo – lasciato intatto dal doppiaggio italiano – rimane un termine strettamente legato alla serie TV e non entra nel linguaggio comune. Solamente quel fine esteta di Austin Powers avrà il coraggio di riprendere il termine.

Nel primo film della serie (International Man of Mystery, 1997) di Jay Roach, con sceneggiatura di Mike Myers, la spietata Frau Farbissina (interpretata da Mindy Sterling) costruisce per conto del Dottor Male (Mike Myers) un gruppo di cinque robot letali di forma femminile, chiamandole fembot: sono personaggi senza nome interpretati da Cheryl Bartel, Cindy Margolis, Donna W. Scott, Barbara Ann Moore e Cynthia Lamontagne.

Austin Powers e le fembot (© 1997 New Line Cinema)

La particolarità delle fembot è che attraggono la vittima con le loro doti sensuali per poi ucciderla con delle mitragliatrici poste nel petto, le cui canne fuoriescono come capezzoli: nel film le chiamano machine gun jubblies.

Machine gun jubblies: nel doppiaggio del film, “mitragliatette”

Il doppiaggio italiano mantiene la scelta oculata degli anni Settanta e lascia intatto il termine, ma quando nel secondo film si cita velocemente il termine, viene reso con… autopa!

Il Dottor Male ha trasformato la moglie di Powers in “autopa”, resa italiana di fembot

Nel terzo Austin Powers il termine non viene citato, ma nei titoli iniziali la cantante Britney Spears si presta ad interpretare una fembot, con tanto di mitragliatrice pettorale.

L’invasione (ignota)
delle fembot letterarie

La narrativa non ha mai preso in considerazione il termine fembot e non sembrano esistere romanzi che utilizzino questo terribile neologismo. O almeno, romanzi pubblicati da un editore. Dall’avvento del digitale, però, il mondo letterario si è diviso in due: c’è la narrativa “classica” e l’autopubblicazione. Cioè quell’Armata delle Tenebre di scrittori che non trovano spazio nel mondo editoriale mediato da case editrici e decidono di fare tutto per conto proprio. In Italia è una realtà poco avvertita, perché è un Paese di non lettori, ma in lingua inglese nel giro di pochi anni si può dire che gli autori autopubblicati hanno eguagliato in numero quelli selezionati dalle case editrici.
E questo vuol dire che dal 1976… rinascono le fembot.

Nel 2009 troviamo D.B. Story (immagino uno pseudonimo, com’è usanza quasi totale in questo ambiente) che racconta a puntate le avventure delle donne robot del futuro, racconti brevi digitali accomunati dal titolo “The Fembot Chronicles“, a testimonianza che nell’inglese parlato quel termine è sempre rimasto, anche se sotto traccia.

Le storie alternano racconti e saggi immaginari provenienti da un futuro in cui si sia particolarmente sviluppata la robotica, con interazioni – anche amorose – fra umani e robot. Più precisamente, fra uomini e fembot. Nel giro di tre anni l’autore inonda il mondo digitale di racconti a 99 centesimi – o gratis, con Amazon KindleUnlimited – con volta per volta delle donne robotiche diverse, fino a creare un vero e proprio vasto universo narrativo.
Non mancano nuove scelte lessicali, visto che nel 2011 sempre D.B. Story dedica un vero e proprio romanzo (400 pagine!) ad una donna artificiale di nome Synthia, delizioso gioco fra Cynthia e Synthetic che tornerà nel dicembre 2012 con “Synthia 3000: A Fembot’s Tale” di Terra Stella.

Nel 2012 la collana di narrativa robotica dal titolo ammiccante “RILF: Robots I’d Like to Find” (Robot che mi piacerebbe trovare), che gioca con il ben più celebre MILF (Giovane mamma che mi piacerebbe “conoscere biblicamente”), presenta il racconto “The Fembot of Norway” di Doc Bot Cole (plausibilmente un nome fittizio).
Il capolavoro però arriva nell’ottobre 2012 con la serie di romanzi “Fembots versus Zombies” di Xavier Cecil. Nel futuro i pochi sopravvissuti all’apocalisse zombie dovranno studiare un’arma per neutralizzare la costante minaccia dei morti viventi: costruiscono così dei robot umanoidi per combattere gli zombie. E già che sono lì, per farci anche qualche pratica moralmente discutibile.

Il 2013 si apre con Samantha Faulkner che presenta il primo di tanti racconti autopubblicati con protagonista Fembot Sally, e il primo titolo omaggia una antica tradizione robotica: “I, Fembot“.

«Rubare diamanti e sedurre agenti segreti rientra in una tipica giornata di lavoro per una femme fatale robotica. Sally è una commessa del reparto profumi di Burlington’s, il negozio posto di fronte ad una sinistra organizzazione internazionale nota come Organization. Sally non è un essere umano bensì una replicante [android replicant], progettata per curare il lavoro del grande magazzino.
Un ladro di gioielli richiama l’attenzione del MI6 e quando l’agente segreto Steve Blunt è incaricato di investigare, Fembot Sally deve usare tutte le sue abilità robotiche per evitargli trappole mortali.»

Da notare come l’autrice nel dubbio butti sul tavolo tutti i termini possibili: fembot, android, replicant. Così acchiappiamo tutti i gusti.
Fembot Sally inizia a vivere una serie di avventure – che usano una copertina fissa modificata in modo simpatico volta per volta – per un totale di almeno sette eBook, raccolti lo stesso 2013 nel volume “The Adventures of Fembot Sally“.
Intanto però nel novembre 2013 arriva B. Cameron Lee con il romanzo “The Femmebots Revolt“, regalandoci una variante del termine.

«Le vendite di femmebot sono in crescita, il mercato è alle stelle, tutti sono felici. Non è così? Il capo delle vendite, Brad Jenson, è nel suo ufficio della Love Dolls Inc. che guarda allibito le notizie in TV che provano il contrario. Formose femmebots con volti perfettamente copiati dalle star del cinema che gridano per le strade, sventolando cartelli con su scritto “NON VOGLIAMO ESSERE USATE” e “I DROIDI CHIEDONO UGUALI DIRITTI”. Bambole sessuali con dei diritti? Femmebots in sciopero? Più alcun piacere per i loro padroni? Il futuro non sembra più roseo per Brad. Lui che ha recentemente perso l’amore della sua vita, una femmebot Marilyn 330CC. Appena attivata, se n’è andata da sola via dalla Love Dolls Inc. per non si sa dove.
Intanto c’è un nuovo caso per il detective Mike Deacon, l’unico della omicidi che possa lavorare in sicurezza ai bassi livelli. L’ultima vittima di omicidio è stata rubata dall’obitorio da femmebots che lavorano per un misterioso padrone. Seguite Mike Deacon e la sua compagna robotica [female android companion], Charmaine, nello strano mondo sotterraneo dei bassi livelli, dove intrigo, spionaggio e pericolo mortale portano alla mente che si cela dietro la Grande Rivolta delle Femmebot.»

Non pago di aver inventato l’accezione “femmebot”, l’autore si lancia in un incredibile “female android”: è come se per indicare una donna io dicessi “è un maschio femminile”…
Se non basta una rivolta, nel marzo 2014 abbiamo addirittura una “Fembot Armada“, racconto di Ava Simone.

«Nell’anno 2150 le donne umane [human female species] vivono separate dagli uomini, in colonie rigidamente controllate chiamate LUNA. Quando si ritrovano la popolazione che diminuisce e capiscono di aver bisogno degli uomini, costruiscono dei robot donna [female robots] fatti appositamente per una funzione: andare nel mondo a raccogliere il seme per la sopravvivenza della colonia femminile.»

Mi permetto di battere le mani per la genialità di questa trama!
Non tutte le fembot però vengono per amare: nello stesso momento scoppia una guerra, cioè “Fembot Wars“, una serie di racconti di Eero Tarik con uno scontro di civiltà, anzi: di umanità.

«Era inevitabile che, raggiunto un certo livello tecnologico, gli uomini avrebbero creato robot femminili [female robots] da tenere come compagnia, preferendoli poi alle donne. La società ha raggiunto un compromesso, ma non tutti sono d’accordo: ci sono uomini che vogliono liberarsi dalle loro fembot e ci sono fembot che hanno un piano, un sogno di un mondo libero da umani.
Questo è l’inizio delle Fembot Wars, un’epica serie di fantascienza.»

Fra una guerra e l’altra, nel 2014 fa in tempo ad uscire un romanzo breve di Mindi Flyth dal titolo “He Became Her Fembot“. Ma che titolo è? “Lui divenne il fembot di lei”? Come fa un uomo a diventare un robot donna?

«I QT sono ragazze artificiali [android girls] che vivono per soddisfare ogni vostro desiderio, e Jamie Tinker è famoso in tutto il mondo per essere l’uomo che le ha create. Ma Jamie ha un oscuro segreto: ha rubato le sue idee dalla brillante ex moglie Eliza, dopo aver le spezzato il cuore e rovinato la vita. Quel che è peggio è che lui ha costruito i QT sulle sembianze di lei. Ora Eliza sta pianificando la sua vendetta… e Jamie sta per scoprire cosa significa diventare una fembot, programmata per soddisfare il piacere di chiunque, uomo o donna, la compri.»

Malgrado l’assurdità dell’espressione “android girls” (ragazze a forma d’uomo), sicuramente la trama è intrigante e sottilmente perversa.
Il 2015 però preme e a febbraio Paul Zante presenta “Mistress Dyke’s Fembot Factory“, viaggio perverso nei piaceri robo-umani, e non è certo l’unico caso in cui le donne robot sono usate per narrativa estrema: ne sa qualcosa Chrissy Wild e il suo “Femdom Fembots“.

«Il futuro è qui, ed appartiene alla razza femminile.
Tim ha provato ad andare avanti come maschio inferiore in un mondo di donne dominatrici. Le sue padrone l’hanno controllato ma ad addestrarlo sono state le sue bellissime fembot.
Tim giace sulla schiena ed accetta tutto ciò che le fembot sentono che lui meriti: in una società a predominanza femminile, Tim accetta che lui meriti una punizione.
Mentre giace sulla schiena e viene soffocato dal bellissimo corpo della fembot, Tim non può far altro che provare amore per la sua sua superiore donna robot. Può esistere un amore del genere? Nel futuro, tutto può accadere…»

Perché questi autori continuano a considerare le donne una “razza”, invece che un genere? Comunque questa narrativa estrema è talmente sviluppata negli autori autopubblicati (e non solo) che la parte robotica non poteva rimanerne fuori.
E l’amore? Possibile non ci sia amore tenero per le fembot? Rispondono J.E. e M. Keep e il loro “The Fembot: A Dark Dystopian Romance” del novembre 2015.

«In un futuro non molto distante le donne non sono altro che elettrodomestici, venduti e programmati per singoli utilizzi.
Andrea è speciale: lei è tutta naturale. Prima che Mister Raynor la comprasse era anche brillante, sagace: una procedura medica si è occupata di questo, ed ora lei ha solo una cosa in mente. Il piacere.
In un mondo ultra-ricco, lei è solo un piacevole giocattolo, un’esperienza unica. Ma un uomo la vuole. Non per come era, non per come potrebbe essere, ma per come è.»

Questa non l’ho capita: l’ultima frase è un classicone del romance, tutte le donne vorrebbero sentirselo dire. (E ovviamente non capita a nessuna). Ma donne normali, non lobotomizzate come la protagonista: che vuol dire che un uomo la ama per quello che è, se è il fantasma di ciò che è stata? Boh, misteri del romance

Il 2016 è un anno di sperimentazione, di incroci di varie parole per giocare con la pseudo-desinenza “bot”, considerata erroneamente la parte che simboleggia l’essenza di un robot. Malgrado sia una convinzione sbagliata, è ormai entrata prepotentemente nel linguaggio moderno.
Se Adam Abels usa un delizioso citazionismo per la sua Clockwork Woman, che gioca con il titolo A Clockwork Orange (in Italia, “Arancia meccanica”), Valentina DiMarco nell’ottobre 2016 ci parla della sua “The Wife Bot“.

«Sono sempre stata sottomessa a mio marito, ma ora avevo finalmente il corpo perfetto: ero pronta ad assumere il ruolo della vita per lui…
La sottomessa casalinga Chelsea farebbe di tutto per compiacere suo marito Ethan, sexy e brillante. Sfortunatamente, l’ordinaria e piatta Chelsea non si sente degna del di lui desiderio. Nel desiderio disperato di compiacerlo decide di provare la sua nuova invenzione… e diventare la sua perfetta moglie robotica [wife bot].
Impiantando un piccolo chip sotto pelle, Ethan può modificare l’aspetto della moglie e trasformarla nella donna dei suoi (di lui) sogni: voluttuosa, splendida e pronta a soddisfare ogni esigenza fisica.
Cosa succederà quando Ethan metterà le mani sulla sua nuova Chelsea incrementata?»

Malgrado sia solo un raccontino di 19 pagine, mi sembra che ci siano così tanti assunti moralmente discutibli che la lettura mi sento di sconsigliarla, se non per farsi due risate.
Se Samantha Sparx si ricorda dei nomi corretti per la sua Robot Virgin e Oliver Crowley fa giri di parole come Electric Love Machine, C.J. Masters nel marzo 2017 inaugura una serie di raccontini con un neologismo nel titolo: “Being His Pleasurebot“.

«Le fembot di questa serie sono costruite per compiacere i propri signori in ogni modo possibile. Se lei fa un buon lavoro, potrà andare a vivere in una nuova casa. Riusciranno le fembot di queste storie a trovare una nuova casa?»

A maggio del 2017 si ritorna un po’ alle origini con “Fembots” di Alastair Macleod: non più il solerte ambizioso giovane scrittore ma stavolta un attempato romanziere canadese, evidentemente in cerca di nuovi mari in cui navigare.

«Una piccola azienda tessile scozzese introduce le Fembots: avanzate donne robotiche [humanoid robot women] per la linea di produzione. Attraenti e capaci, riusciranno queste Fembots ad essere accettate dalle lavoratrici donne? Cosa succederà quando le donne saranno incoraggiate a portarsele a casa, e quale effetto avranno sui loro uomini?
Sarà questa la vera sfida per il futuro?»

Nel luglio del 2017 siamo ancora ai sogni di perversioni sado-robotiche con “Turned into a Fembot” di Lisa Change, storia di una donna che diventa robot slave girl: schiava robotica.

«Nel caldo soffocante del deserto californiano lo scienziato miliardario Jacob Flex sta per completare un’incredibile invenzione. Insieme alla sua sexy assistente Jen, Jacob ha scoperto i segreti della vita: il modo di dare un’anima ai robot. Ma cosa succede quando quell’anima appartiene a Jacob Flex stesso?
Ritrovatosi nel corpo di una splendida fembot bionda, la sua forma maschile distrutta e riprogrammato per dare piacere ad ogni uomo o donna che incroci la sua strada, presto Jacob scopre di essere un incubo assurdo. Intrappolato nella formosa e bollente [busty bimbo-bot] Candie, Jacob scoprirà cosa voglia dire essere un oggetto sessuale.»

Specializzata in racconti transgender, non stupisce che l’autrice si facchia chiamare “Change”…
L’estate 2017 è lunga così Deep Damage (ma dove li pescano questi pseudonimi?) fa in tempo a scrivere racconti hardcore gothic science fiction (qualsiasi genere sia) per la serie “Patrick Bateman Experience” di Dona Diabla. I titoli delle due antogie sono più che esplicativi: “Fembot Torture” e “Fembot Destroyer“.
Bando ai racconti, a novembre KT McColl presenta un vero romanzo breve: “The Last Fembot“.

«Jude non è nessuno. Preso da bambino nella fratellanza, dopo l’Ultimate Sin, ha faticato nei campi per tutta la sua vita adulta. Il suo obiettivo era tenere insieme il proprio corpo e la propria anima, e non attrarre mai l’attenzione.
Il mondo come lui lo conosce va in frantumi quando scopre che probabilmente l’ultima fembot al modo si trova in una casa abbandonata. Ancora in vita.
Jude decide di riattivarla e vedere dove la programmazione di lei può portarli.»

Ovviamente li porta al sesso, unico tema che interessa chi si occupa di donne robotiche.

Troviamo ben due neologismi nel racconto che Valentina DiMarco presenta nel novembre 2017: “Fembot: A Bimbofication Story“.

«Heath era cresciuto con l’idea che sua moglie dovesse essere docile e sottomessa. Ora lui era il mio maestro, ed io ero la sua creazione, perfetta e sexy, una donna progettata per soddisfare ogni sua necessità sessuale.»

Nello slang sembra essere entrato questo nome, “bimbo”, che in effetti cala a pennello per le fembot: si riferisce ad una giovane bella donna, tanto formosa quanto poco intelligente. In pratica indica proprio il concetto principale delle fembot, donne costruite da uomini quindi belle non in grado di rispondere per le rime ai propri “maestri”.
La stessa Valentina DiMarco ha sfornato racconti su racconti sull’argomento, da “The Bimbo Blueprint” a “The Bimbo Game“, così come Viktoria Skye ha presentato “Bimbo Wife, Happy Life” e “Bath Bomb Bimbo“.

A dicembre Reed James inizia una serie di racconti accomunati dal titolo “Fembot Harem”, il cui primo titolo è “Testing the Nubile Fembot“.

«Scott si occupa di testare i prodotti della compagnia per cui lavora, ma si ritrova frustrato fra la sua collega sexy dai capelli rossi e la sua capa milf. Per sua fortuna la ragazza dei suoi sogni gli viene recapitata a casa. Un sexbot cattivella!
Scott deve risvegliare l’innocente e sexy fembot e farle conoscere i piaceri del suo corpo, ed è solo l’inizio di un harem crescente di donne e sexbot danneggiati.»

Mentre Reed si lancia in vari racconti su questo tema, l’anno 2017 si chiude con “Rosa 2000: Your Stepford Wife Fembot guide” di Pink Martini e Dona Diabla.

«Nel futuro le fembot saranno tutto ciò che rimane dopo che egli uomini avranno distrutto le donne. Rosa 2000 è un robot costruito originariamente per essere una moglie e madre perfetta. L’androide (!) è così abile nella mimica umana che è praticamente indistinguibile da una qualsiasi donna.»

Non è una trama chiarissima: a che serve una donna robot identica alle donne che gli uomini hanno distrutto? Va be’, è un raccontino, non si può chiedere troppo.

Il 2018 è appena iniziato e già la vita letteraria autopubblicata delle fembot sembra attiva proprio come gli anni precedenti: quanto ci vorrà prima che il termine, pencolante ed orribile, entri in pianta stabile nella lingua parlata?

L.

 
21 commenti

Pubblicato da su gennaio 24, 2018 in Indagini, Leggende nane, Linguistica

 

21 risposte a “Fembot: il primo nome della donna robot

  1. Cassidy

    gennaio 24, 2018 at 8:31 am

    In Italiano, andare da un marito e dirgli che sua moglie è una Bot, potrebbe essere un esperienza che termina nel sangue 😉 Per il resto, la trama delle cacciatrici robot di seme maschile, potrebbe essere l’incipit per un porno particolarmente fantasioso ma geniale 😀

    Basta con le mie caSSate, super pezzo! Hai aperto un vaso di pandora di pubblicazioni sulle fembot che non mi sarei mia immaginato, non pensavo proprio esistesse tutta questa letteratura sull’argomento, dimostrazione che spesso si riciclano sempre gli stessi temi (che so gli zombie) quando invece si potrebbe variare. Gran ricerca complimenti, non vedo l’ora di leggere la parte dedicata alla parola ginoide 😉 Cheers

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    • Lucius Etruscus

      gennaio 24, 2018 at 8:41 am

      Ho riso come un matto a tradurre quelle trame: riescono ad essere geniali e dementi allo stesso tempo 😀 Incredibile quanto un nome farlocco, rilanciato da quel distinto gentleman di Austin Powers, possa fare breccia e diventare vero e proprio genere narrativo, anche se non riconosciuto da alcuna casa editrice.
      Comunque è vero, invece di “autopa” la versione italiana di febot potrebbe essere… “bottana” 😀

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      • Conte Gracula

        gennaio 24, 2018 at 9:49 am

        In Futurama, solo in due puntate, hanno usato sia fembot (e fem-puter, il supercomputer femmina che era in realtà una fembot) sia robottana, la prostituta robotica.
        Credo che la fembot fosse un ritorno da Austin Powers, più che un ritorno spontaneo, e chissà se c’era anche in lingua originale…

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      • Lucius Etruscus

        gennaio 24, 2018 at 9:52 am

        Ah, grazie della dritta, è una vita che non mi rivedo Futurama e ora scatta l’upgrade con queste ghiotte info ^_^
        Grazie, anche in vista di un progetto futuro a cui sto lavorando: l’enciclopedia delle donne artificiali 😛

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      • Conte Gracula

        gennaio 24, 2018 at 10:02 am

        La puntata della fembot e della femputer era quella del pianeta delle amazzoni e dello snu snu, quella della robottana era la prima puntata col robodiavolo, se non erro 😉

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      • Lucius Etruscus

        gennaio 24, 2018 at 10:16 am

        ahaah il robodiavolo mi faceva morir dal ridere, era geniale! Con l’occasione mi rivedrò un po’ di Futurama classic 😉

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      • Conte Gracula

        gennaio 24, 2018 at 10:22 am

        Il robodiavolo era il mio personaggio preferito, più di Bender e Zoidberg: entrava in scena e partiva una canzone XD

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      • Lucius Etruscus

        gennaio 24, 2018 at 10:24 am

        Ricordo quando il Robodiavolo chiede a Bender suo figlio in pagamento di qualcosa, e poi sbotta a ridere: il tempo di finire la risata e Bender gli tira il figlio con una pedata. «È un po’ troppo anche per me» dice il diavolo, o qualcosa del genere 😀

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      • Conte Gracula

        gennaio 24, 2018 at 10:25 am

        Sì, ci stavo giusto pensando, credo fosse in La bestia con un miliardo di schiene XD

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  2. zoppaz (antonio zoppetti)

    gennaio 24, 2018 at 8:53 am

    Hai scritto un vero e proprio trattato! In effetti bisognerebbe valutare anche alla luce delle recenti direttive per la femminiilizzazioni delle professioni quale sia il femminile di robot (poliziotta o donna poliziotto? ministro o ministra? fembot o robottessa, donna robot, robota o robottina?). Ginoide sul modello di androide è etimologicamente corretto ma temo di scarsa orecchiabilità e impatto rispetto a fembot. Si potrebbe anche chiamarla Caterina, in omaggio a un film di Albertone!
    Vado subito a scrivere il primo romanzo incentrato sulla storia di una genderbot, la storia di una fembot che con l’autocoscienza scopre di non sentirsi appartenente al genere cui era stata programmata! se fembot dovesse prendere piede e diventare la parola del 2018… mi porto avanti! 🙂

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    • Lucius Etruscus

      gennaio 24, 2018 at 8:59 am

      Per ora è utilizzata solo da autori autopubblicati e sconosciuta alla narrativa che passa per case editrici, però non è detto 😉
      Gynoid purtroppo è termine davvero poco usato, sebbene sia l’unica proposta corretta: se consideri che in un film di Roger Corman una donna robot viene chiamata “android”, capisci che la situazione lessicale è parecchio confusa.
      Per il mio saggio breve sull’argomento ho scoperto un odio e disprezzo viscerale che sarebbe davvero da studiare: da duecento anni gli uomini disprezzano le donne che loro stessi costruiscono, e non stupisce che la stragrande maggioranza delle ginoidi siano prostitute o assassine.
      Chapek non aveva problemia chiamare robot sia maschi che femmine, visto che il genere non cambiava di molto la loro essenza di “lavoratori universali”, quindi non vedo perché noi dovremmo farci problemi a fare lo stesso.
      Assurdo invece chiamare una donna “androide”, credendo forse che la parola sia sinonimo di robot.

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      • Conte Gracula

        gennaio 24, 2018 at 9:53 am

        Forse è un po’ come usare il termine “uomini” anche per riferirsi all’umanità in genere.
        Cosa che cambierà quando una certa figura politica imporrà finalmente “uoma” oppure “donno” 😛

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  3. Conte Gracula

    gennaio 24, 2018 at 10:00 am

    E veniamo alle trame: ammazza, che trame urende! Banali e affogate nel disprezzo del genere, nessuna buona storia può essere entrambe le cose contemporaneamente!
    Mi ricordo l’articolo sui succubus, anche lì, se non erro, hai tradotto le sinossi di una marea di piattume banale, ma qui c’è pure il malus del disprezzo per le donne. Capirei per specifiche donne, ma l’intera categoria è un filino vasta…
    Va da sé che nemmeno gli uomini escono benissimo da queste sinossi… per me è tutta propaganda robotica antiumana!

    E comunque, mi hai ricordato la donna bionica e l’uomo dai sei milioni di dollari, che guardavo sempre da bambino – credo che avessero fatto pure il film con la loro prole robotica e uno sketch di Benny Hill con lo stesso tema.
    Perciò ora ti lascio con un TCH TCH TCH TCH TCH TCH!

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    • Lucius Etruscus

      gennaio 24, 2018 at 10:15 am

      Da ragazzino Italia1 mandava a getto continuo quegli episodi, e anche se non li seguivo con regolarità comunque me li guardavo sempre.
      Considera che queste trame assurte e misogine sono scritte in maggioranza da donne! Ci sarà un motivo se nessuna casa editrice vuole pubblicare quei testi 😛
      Anche il succubus è un tema che stuzzica, per trame friccicose e pruriginose: chissà se davvero hanno un bacino di lettori, questi libri e racconti…

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      • Conte Gracula

        gennaio 24, 2018 at 10:21 am

        Avranno pure un bacino di lettori, ma la concorrenza è oscena – sotto tutti i punti di vista!

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  4. Emanuele

    gennaio 24, 2018 at 4:29 PM

    A me l’aggettivo fembot fa ridere ogni volta che lo sento per colpa di Bender e Futurama 😄

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  5. Ivano Landi

    gennaio 25, 2018 at 9:11 am

    Gli unici esempi che ricordo io di potenziali fem-bot sono quello, già citato sopra nei commenti, del film di Alberto Sordi “Io e Caterina” (1980) e di un altro film dello stesso anno: l’XXX con Marilyn Jess, “La femme-objet” .
    Il tuo articolo è molto interessante, ma quando sono arrivato all’harem ho gettato la spugna. Mi sentivo un po’ come quando si mangia troppa panna montata in una volta sola.

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    • Lucius Etruscus

      gennaio 25, 2018 at 9:17 am

      Infatti il genere è esploso deflagrante con un fiorire di titoli che portano alla nausea: non so se effettivamente ci siano dei lettori per questo fiume di raccontini robo-sessuali, ma fatto sta che ci sono ed escono di nuovi ogni settimana.
      Le donne artificiali sono molto meno degli uomini ma la narrativa – non solo letteraria – le ha sfruttate bene e hanno segnato in modo profondo gli ultimi duecento anni: pian piano pubblicherò le varie parti che compongono il mio saggio “GYNOID. Duecento anni di donne artificiali“, perché gli aggiornamenti e le aggiunte fioccano in continuazione 😉

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